RECENSIONE A LA MEMORIA DEI PADRI DI CESARE VIVANTE
Trent'anni di ricerche in polverosi archivi di mezza Europa e oltre: da Venezia a Parigi, da Londra a New York per poi tornare a Corfù, porta del mare e chiave dell'Adriatico, dove i Vivante cercarono rifugio dopo la cacciata degli ebrei dalla Puglia nel 1540. Questo e molto altro nel libro di Cesare Vivante "La memoria dei padri", (Giuntina) in discussione in occasione della trentaquattresima giornata di Studio a Venezia, dedicata quest'anno agli Yudim di Yavan, gli ebrei provenienti dalla Grecia.
La ricerca iniziò nell'amata Venezia dove un giorno l'autore, tra le pagine di un antico registro, trovò notizia di un certo Leon di Menachem Vivante, primo della famiglia nato a Venezia il 20 maggio del 1753. Da lì, a ritroso nel tempo, viene a costituirsi un mosaico di storie familiari legate a filo doppio con le vicende storiche della Serenissima prima in lotta contro il nemico ottomano alla porte, poi con Napoleone e i francesi fino alla definitiva disfatta.
Si parla poi di Jehudà Leone Vivante, mercante e fenatore, che a più riprese si recò nella città lagunare agli inizi del '700 con un "naviglio di ventura" e che, verificate le prospettive economiche per il commercio dell'olio, si trasferì da Corfù a Venezia con la moglie, i figli e le rispettive famiglie per avviare una florida impresa mercantile.
Sfiorano invece il romanzo le vicende di Rachele, bella ed esuberante giovinetta, che fuggì dalla casa del padre nel primo giorno di Pesach per ricongiungersi con l'amato Spiridione Bulgari, giovane rampollo di un'antica e nobile famiglia corfiota. Rachele venne in tutta fretta battezzata e unita in matrimonio con quest'ultimo, facendo esplodere un incidente diplomatico tra la Repubblica di Venezia e Corfù, tale da coinvolgere addirittura il Consiglio dei Dieci affiancato dagli inquisitori di Sato.
I Vivante raggiunsero il loro apice alla fine del Settecento partecipando alla costituzione di alcune grandi compagnie di commercio e di assicurazione marittima e aprendo una filiale della ditta veneziana a Trieste, diventata da tempo primo porto dell'Adriatico. Ma con il benessere arrivò anche la volontà di rinnovamento. Il giovane e ambizioso Iseppo Vivante, stanco della vita di Ghetto, scrisse una lettera ai capi famiglia chiedendo la liquidazione dei beni di sua competenza per poterne disporre liberamente. Ottenuto con difficoltà ciò che aveva richiesto, si convertì al cristianesimo cambiando il cognome in Albrizzi e abbandonando così il suo retaggio culturale e religioso per entrare a far parte dell'aristocrazia veneziana come collezionista d'arte.
L'arrivo dei francesi e la conseguente caduta della Repubblica sembrò assicurare agli ebrei un periodo di sviluppo e di emancipazione, si rivelò invece l'ennesima débacle per l'economia già in declino del Ghetto.
Il nucleo familiare dei Vivante cominciò a sfaldarsi e dei quattro fratelli l'unico ad uscirne indenne fu Jacob Vita, diretto antenato dell'autore. Dopo la morte di Jacob, il testimone passò ai figli e ai nipoti, impotenti spettatori della crisi ormai irreversibile che porterà al definitivo esaurimento dell'impresa familiare intorno alla metà dell'Ottocento.
Il resto è storia di ieri che si riflette nell'oggi. La storia di una delle tante famiglie peregrine, condizione connaturata al destino degli ebrei, che da pugliese diventò corfiota, poi veneziana, poi triestina e che però mantenne una sua identità, un minimo comun denominatore che non fu soltanto l'appartenenza religiosa, ma anche una memoria collettiva che riuscì a sopravvivere ai secoli. Un modello per il citatdino europeo di oggi che affronta la difficile sfida all'integrazione, cercando di non perdere la propria identità.
La memoria dei padri di Cesare Vivante