Tomas Simcha Jelinek
Il mikvé
Un ebreo errante ha un grande vantaggio: poter errare senza arrossire. Il mikvé, il mikve, la mikvà, non importa. Tra breve dovrò imparare un'altra lingua ed errare in essa nei limiti della decenza. Non è solo questa parola che sbaglierò. Sono gli articoli, le doppie e gli accenti. E poi non solo nella lingua scritta, ma anche in quella parlata. E insomma in tutto, anche nella vita – o vitta? – quotidiana. E anche in quella delle feste. Errare da ebrei è confortante. Il minjàn, i dieci uomini necessari in sinagoga per poter leggere la Torà, non pretende da nessuno che non sbagli mai. Ci possono essere i nove uomini più intelligenti della città, che non hanno mai sbagliato un singolo accento, ma devono comunque cercare, o aspettare, e non ignorare il decimo ignorante, stupido, analfabeta, ma benedirlo ed esser anche contenti per la sua presenza. Quasi la democrazia.
È anche divertente errare da ebrei, svegliarsi nel treno oltre la frontiera, con una nuova lingua sui manifesti e le scritte sui muri, con le domande incomprensibili del controllore o della guardia di frontiera o della bella ragazza alla quale si chiede la strada con speranza.
È divertente e confortante proprio perché è necessario il minjàn in ogni sinagoga, in ogni città, e non ti può escludere, non ti può rifiutare.
In quella città oltre frontiera chiesi di poter usare il mikvé, la delizia del bagno rituale riempito di acqua viva che riporta il corpo e l’anima nel tempo prenatale, nella pancia della mamma, calda, morbida, accogliente, dove a testa in giù si dondola dolcemente ad ogni passo.
Nel mikvé ci si deve immergere completamente nudi per almeno tre volte e per poterlo fare si assume la posizione fetale dell’embrione, che in ebraico si dice anche golem, parola che significa anche ignorante. E io, che vengo da Praga, la città dove gli ebrei furono salvati proprio dal Golem, io mi chiedevo: sono embrione di qualcosa o semplice ignorante?
Prima di immergermi feci la doccia. L’acqua scorreva sulla mia pelle e l’odore di treno, penetrato ovunque, scivolava via. Ad occhi chiusi versai lo shampo sui capelli e mi lavai la barba. Feci scorrere a lungo l’acqua, proporzionalmente alla lunghezza del viaggio. Poi, tutto nudo, entrai nella grande vasca-utero materno. Mi rivestii con abiti puliti anche se non stirati, e mi diressi in sinagoga pronto ad entrare nel settimo giorno, lo Shabbat, il giorno distinto da tutti gli altri sei, l’unico che in ebraico ha un nome e non una numerazione, il giorno in cui è un precetto l’essere in armonia con sé e con gli altri.
In sinagoga ero il decimo uomo. Sentendo i miei passi, nove notabili della città si girarono e con un lieve cenno della testa mi fecero intendere che ero benvenuto e benedetto. La sinagoga era grande e vuota.
In tutte le sinagoghe del mondo la voce dei fedeli in preghiera sale in alto insieme all’odore dei piedi degli ebrei erranti giunti fin là, e con un po’ di concentrazione si può stabilire la distanza che i piedi hanno percorso prima di arrivare in quel luogo. Il mikvé però era accanto alla sinagoga e i miei passi erano stati pochi, cosi saliva solo il buon odore di pulito dell’antico rito dell’immersione appena praticato.
Il rabbino si volse verso di me e mi guardò benevolo. Il suo sorriso era incorniciato da una grande barba nera. Anche gli occhi erano scuri. E brillavano. Lo Shabbes, lo Shabbàt è la sposa, la regina, illuminata dalle stelle e dalla luna perché la luce del sole troppo forte cancellerebbe i particolari di essenza sottile e di immensa importanza che creano lo spazio in cui si muovono gli angeli portatori di quell’anima supplementare di cui gode ogni ebreo per tutta la durata dello Shabbat.
Finita la preghiera, il rabbino mi invitò alla cena sabbatica nella sua casa. È un’usanza rispettata dagli ebrei in ogni dove, perché ogni forestiero venuto in sinagoga ad accogliere lo Shabbat potrebbe essere un angelo, o forse no, forse porta un messaggio importante, o forse no, forse non è lì per caso, o forse sì. Anch’io forse potevo essere un angelo, o forse no.
Accettai l’invito con piacere, avevo molta fame. La casa non era lontana, i passi da fare pochi e non ci fu tempo per parlare, giusto le presentazioni, lo jichus, la discendenza, perché chissà, forse potevamo anche essere parenti. Ma come brillavano i suoi occhi! Che sorriso luminoso nella cornice nera della barba!
A casa la tavola era apparecchiata, le candele accese. La famiglia ci accolse festosa. Shalom alejchem, cantammo il benvenuto agli angeli; eshet chail, cantammo la lode alla donna virtuosa; si benedissero i figli, si benedisse lo Shabbat, il vino e il pane. Si mangiarono cibi gustosi e il sapore era diverso dal sapore dei giorni feriali, anche la luce era più calda e gli odori una delizia per le narici. Odori, colori, sapori dello Shabbàt.
La luce delle candele spandeva dolcezza e si rifletteva nelle pupille dei commensali e gli occhi del rabbino brillavano. Finalmente capii: era l’odore dello shampo che emanava dalla mia testa che prima, in sinagoga, aveva fatto brillare i suoi occhi. Anche i capelli della rebetzin, la moglie del rabbino, emanavano da sotto il velo lo stesso odore. Anche lei era stata al mikvé.
La donna, con il rituale del bagno, separa il puro dall’impuro, l’isolamento dal contatto. Dopo il mikvé la coppia può di nuovo unirsi. E quando capita di Shabbat, allora l’oneg, il piacere, la gioia sono completi. E come brillavano gli occhi del rabbino nella cornice della barba nera!
Si bevve l’ultimo bicchiere di vino, si recitò la preghiera dopo il pasto ringraziando prima il Signore e poi l’ospite che mi aveva accolto. Sulla porta ci scambiammo gli ultimi saluti: «Oneg Shabbàt shalèm», «Shabbàt shalòm».
Per strada fui colto dalla sorpresa. Avevo scordato che era notte, che gli occhi volevano chiudersi per aprire la porta ai sogni. Ma come dormire, come sognare camminando? Solo Ahasvero, l’ebreo errante, poteva farlo, non avendo la possibilità di fermarsi. I miracoli però possono essere anche piccoli, quasi invisibili, come quel filo di luce che si intravedeva attraverso la porta della sinagoga. La luce mi indicava che qualcuno era entrato ed era ancora lì.
Aprii il portone lentamente e con gran meraviglia vidi gli angeli ai quali avevamo cantato il benvenuto prima della cena immersi nello studio di libroni appoggiati sulle loro pance. Fecero finta di non vedermi e mi dettero così l’opportunità di sedermi in un angolo buio e di ascoltare la lingua celeste, che ora capivo parola per parola. Cantavano. Loro che non conoscono il desiderio della fisicità, che conoscono solo le carezze della brezza, si girarono verso di me, mi invitarono tra di loro, e insieme cantammo una melodia infinita, e tenendoci per mano danzammo un girotondo.
Oneg chai shlemà, vita intensa, piacevole e completa, completa come l’onda che è il respiro del mare mi augurarono, ed io risposi: «Amen, così sia, sia fatta la Sua volontà».
Chiusi gli occhi. Si aprì la centesima porta. Sognai.
Da allora vivo in quella città per realizzare quei sogni con accanto una donna profumata e con dei figli, che ci osservano. Sentirmi osservato per essere di modello mi dona la responsabilità nell’agire quotidiano, mi dona la vita completa, come la pancia della mamma dove, con la testa in giù, mi sentivo tanto sicuro, come mi sento sicuro immerso nel mikvé e come mi sento beato nell’odorare il profumo nei capelli della mia donna dopo il mikvé che separa dalla separazione.
Errando come il vento, da allora mi fermo solo là dove l’acqua viva mi può accogliere e dove gli angeli vengono a studiare di Shabbat. Gli errori non sono spariti dalla mia vita e non sempre mi accorgo di averli fatti. Quando ne sono consapevole, mi fermo, mi lavo i capelli e la barba, faccio scorrere l’acqua sulla mia pelle, e poi mi immergo senza peso.
La possibilità di rinascere nell’acqua viva mi dà la forza di riaprire gli occhi ogni mattina, ringraziare Dio per avermi restituito l’anima, errare errando, amare e cercare di essere di esempio a quelli che mi osservano. Non sempre è facile, e, quando la paura si fa forte, ricordo a me stesso che il compito più arduo è quello di esser sempre allegri.
Nel mio cammino saluto i viandanti che incontro: «Buone notizie!», e se il viandante mi risponde «Buone notizie!» allora mi riservo il diritto di dire l’ultima parola: «Amen, così sia».