In "Un romanzo per Hollywood" Hanna Krall, ricostruendo le peripezie di Isolda R., scampata ad Auschwitz, indugia su quel soprassalto di colpevole euforia da cui le era capitato di lasciarsi invadere nell'ascoltare le testimonianze dei protagonisti dei suoi reportage: la sensazione che quelle persone - già in parte tramutatesi nei loro "alter ego" di carta - avessero vissuto situazioni uniche nella loro tragicità "proprio" perché lei potesse narrarle. "Come se la mia descrizione fosse più importante della loro morte... Eppure - cercavo di giustificarmi - questa è uan cosa che dovrebbe essere raccontata", annota in calce la giornalista, quasi a minimizzare il corollario logistico insito nel suo entusiasmo: in fondo, la fissazione scritta conta più dell'evento in quanto tale. Chissà se la Krall ha avuto la stessa impressione anche al cospetto di Marek Edelman, unico sopravvissuto dello stato maggiore della Zob (Organizzazione ebraica di combattimento) che il 19 aprile 1943 a Varsavia, di fronte alla imminente liquidazione del ghetto, aprì il fuoco contro le truppe tedesche. Di certo la voce di Edelman - reticente, se non addirittura ruvida, aliena da ogni enfasi retorica - trovò nello stile ellittico della Krall la veste letteraria più consona a rispecchiare quel "sopsetto nei confronti delle parole" - direbbe Aharon Appelfeld - che traspare invariabilmente dalle sue memorie avare, estorte quasi "obtorto collo".
Riflesso di questo incontro singolare tra due individui ben consapevoli delle possibili derive auto-celebrative contenute in ogni narrazione è "Arrivare prima del Signore Iddio", straordinaria intervista rielaborata in volume dalla Krall nel 1976 apparsa in Italia per la prima volta nel 1985 per i tipi di Città Nuova e ora riproposta da Giuntina nella non esaltante traduzione di Ludmila Ryba e Janina Pastrello, ma con una intensa e persoanle nota introduttiva di Gad Lerner.
Insorgere perché quel mondo che non era tedesco sapesse, morire pubblicamente sotto gli occhi della gente, in ossequio alla convenzione per cui andarsene con le armi in pugno è più bello che senza - ecco le frasi con cui l'ex vice-comandante della Zob liquida quel "desiderio nostalgico di una morte estetica" che, a suo dire, spiega molto di quanto accadde il 19 aprile 1943. Edelman le pronuncia quasi con rabbia, perché non rendono conto della terribile calma e dignità con cui 400.000 ebrei del ghetto, durante la cosiddetta grande operazione di sgombero nell'estate del 1942, si sono avviati alla morte con una pagnotta in mano, salendo sui vagoni che li avrebbero portati e Treblinka. Senza aver sperimentato la fame nel ghetto non si può capire chi si consegnò spontaneamente, nella convinzione che i tedeschi non avrebbero mai sprecato tutto quel pane: "e infatti finora nessuno l'ha capito", aggiunge Edelman, che d'altronde con l'umana incomprensione si sarebbe misurato appena uscito dalle mura del ghetto.
Già tre giorni dopo la "pacificazione", infatti, il rapporto laconico ed esente da "pathos" tenuto dall'insorto ventiduenne davanti ai rappresentanti politici della resistenza polacca avrebbe dimostrato che "quell'unico superstite non era adatto a fare l'eroe". Troppo profonda era da parte di Edelman la consapevolezza della propria estraneità allo stereotipo irrimediabilmente ariano del patriota polacco veicolato dalla letteratura romantica. Un'immagine convenzionale che, paradossalmente, riaffiora a distanza di anni nelle distorsioni cui il processo di costruzione della Storia sottopone il flusso magmatico della memoria, calandolo non di rado nelle forme incongrue di un monumento. Come quello funebre che troneggia sulle tombe dei compagni Michail Klepfisz e Abrasza Blum: "Nessuno di loro ha mai avuto quell'aspetto. Non avevano né fucili, né carucciere, né mappe, e per giunta erano neri e sporchi. Ma il monumento è probabilmente come dovrebbe essere. Il monumento è chiaro e bello". Lo stesso tono di sarcastica condiscendenza torna a proposito dei fantomatici vessilli che avrebbero sventolato sul ghetto sin dai primi giorni della rivolta e che Edelman sostiene di non ricordare: "Ah sì? Be', se tutti le hanno viste, è sicuro che le bandiere c'erano. E del resto, che importanza vuoi che abbia?".
Un orientamento anti-celebrativo quello dell'ex insorto e cardiologo scomparso il 2 ottobre 2009 amplificato dalla prosa tutta a levare della Krall, dal suo orecchio sensibilissimo, sempre all'erta per cogliere se da una frase potrebbe stillare quella "seconda lacrima di commozione" che per Milan Kundera è la quintessenza del kitsch. Alla laconicità dell'intervistato si sommano dunque le censure stilistiche dell'autrice, che interrompe bruscamente il suo interlocutore quando vorrebbe rispondere per interposta persona alla domanda di un giornalista francese sui rapporti amorosi nel ghetto. L'istintivo rigetto della Krall "imporrà" curiosamente a Edelman una auto-censura trentennale sull'argomento, che sarà ripreso solo nel 2008 per diventare il fulcro di "C'era l'amore nel ghetto" (pubblicato l'anno scorso da Sellerio). Che la Krall fosse un'ascoltatrice tutt'altro che remissiva lo dimostra anche la sua esitazione nel riportare il dettaglio dei mazzi di fiori gialli che il medico riceveva puntualmente ogni 19 aprile: " Non so se dobbiamo scriverlo. Fiori gialli anonimi... Letteratura da quattro soldi. Tu in generale hai una propensione per le storie un po' kitsch".
Dunque "Arrivare prima del Signore Iddio" non è soltanto lo stenogramma di una conversazione tra due spiriti complici, legati da un involontario "sospetto per le parole", ma anche un confronto talora drammatico sulle implicazioni etiche delle scelte che a Edelman toccò in sorte di prendere. "Quindi per un revolver si poteva nascondere per un mese una persona, oppure due o addirittura tre?" - esclama la Krall nell'udire il "listino prezzi" delle armi introdotte di contrabbando nel ghetto dalla parte ariana. E non potrebbe altrimenti, visto che la giornalista di origini ebraiche nata a Varsavia nel 1935 poté sopravvivere alla guerra solo perché fortunosamente sottratta alle persecuzioni naziste. La responsabilità per la vita altrui sarà un "leitmotiv" destinato ad accompagnare fino in fondo il sopravvissuto. "Il Sgnore Iddio è già lì pronto a segnere la candela, io invece devo rapidamente proteggere la fiamma, approfittando di un Suo momento di distrazione": così Edelman delimita l'ambito dell'attività medica esercitata a Lodz nel dopoguerra, sotto un regime non alieno da nuovi rigurgiti di antisemitismo. La vertigine sperimentata dalla Krall nel riportare eventi che sembrano attendere solo la sua descrizione si riverbera così da ultimo nella tenace lotta del cardiochirurgo per corregere disegni divini troppo affrettati. D'altra parte, come commenta lo stesso Edelman, "quando hai accompagnato tanti uomini ai vagoni, dopo puoi avere un paio di questioni da sistemare con Lui".