Assaggio di lettura: Le lettere della creazione. L'alfabeto ebraico di Catherine Chalier: "MEM"

Assaggio di lettura: Le lettere della creazione.
L'alfabeto ebraico di Catherine Chalier - MEM


LA LETTERA "MEM"

Che la lettera mem si scriva con due lettere identiche
(mem, mem), suggerisce, secondo i maestri, che,
malgrado la loro apparente divergenza, quasi sempre
molto profonda, le due letture, essoterica (niglà) ed
esoterica (nistàr), della Torà, non si contraddicono.
È sempre la stessa tonalità di verità che si dà,
secondo armoniche differenti, al lettore attento alla
letteralità del testo come a colui che, insoddisfatto
di essa, cerca di pervenire al senso nascosto. Anche
le interpretazioni mistiche che, a prima vista, sono
molto distanti dal senso letterale dei versetti si dispiegano
a partire da una interrogazione della lettera
ebraica, spesso in ciò che ha di più concreto. «Un
versetto biblico non perde mai il suo significato letterale»
sostiene con forza il Talmùd (Shabbàt 63a).
Ciò richiede un ritorno costante a questa lettera, non
fosse che negli istanti in cui, nel suo slancio spirituale
e mistico, un lettore credesse di potersene affrancare.
Infatti, se «la contrazione dell’Infinito» nella
finitudine della lettera o «la dignità profetica del
linguaggio» biblico richiedono proprio un’esegesi
infinita, questa non può voltare le spalle alla lettera
senza perdere, al tempo stesso, la fonte viva della
sua ispirazione.
La tradizione orale di lettura fa intendere delle
armoniche inedite (chiddushìm), vivamente incoraggiate,
ma esse provengono tutte dall’unica verità
riposta nell’intimità delle lettere ebraiche che compongono
la Torà. Questo «testo teso su una tradizione
come le corde sul legno di un violino» attende
le interrogazioni di ciascuno per sorprendere ancora.
Poiché la sua verità oltrepassa tutti i dogmi e le
affermazioni frettolosamente perentorie, essa sfugge
dalle mani, o dall’intelligenza, di coloro che, per
paura d’essere presi in flagrante delitto di imperizia,
vorrebbero trattenere il seme prigioniero e impedirgli
di crescere.
La lettera mem deve dunque restare aperta perché
se aspira troppo presto a raggiungere l’apparente
serenità della mem finale, chiusa su se stessa, in
una autosufficienza che sbarra la strada a ogni soffio
estraneo, essa inaridisce la sorgente che nutre lo spirito.
Se, secondo il Talmùd (‘Avodà Zarà 5b), i quaranta
(valore numerico della mem) anni di attraversamento
del deserto significano anche che bisogna
studiare, durante quarant’anni, prima di pretendere
di comprendere la verità trasmessa da un maestro, a
fortiori l’impazienza si vede proscritta davanti alla
verità rivelata e nascosta della Torà stessa.
I due aspetti della lettera mem, aperta e chiusa,
appaiono fin dall’inizio della creazione. Dio separa
le acque, mayim, che sono al di sopra, e le acque,
mayim, che sono al di sotto, «e fu così» (Gn 1, 7).
Il legame che unisce la mem e l’acqua, mayim, parola
che, in ebraico, ignora la forma del singolare,
s’impone dunque molto presto alla vigilanza dello
spirito.
Ma cosa significa questa distinzione tra le acque
inferiori, simboleggiate dalla mem aperta ( מ), e
le acque superiori, simboleggiate dalla mem chiusa(
ם)? Gli elementi sono tutti, nella Bibbia, creature;
la parola (davàr) dell’Eterno che, ad ogni istante, dà
loro l’essere come a ogni altra creatura, le abita dunque,
ma queste creature restano mute. A questo titolo
l’acqua, come gli altri elementi, ha bisogno che una
voce umana porti al verbo la vibrazione interiore del
dire divino che essa ospita.
La prima mem di mayim sarebbe aperta per permettere
agli uomini di ritornare ad essa, sulla terra,
senza difficoltà. Ciò alluderebbe al fiume che usciva
dall’Eden per irrigare il giardino e, da là, si divideva
in quattro rami (Gn 2, 10). Tuttavia, come la Bibbia
precisa, se esce dall’Eden non è che si confonda con
esso. Le acque inferiori vengono dalle acque superiori,
da questa mem plenaria e sovrana, situata in
un Eden ancora inaccessibile a coloro che penano
sulla terra. Tuttavia le acque superiori sono indispensabili
a una vita che rifiuti di lasciarsi asfissiare
da una pesantezza priva di ogni grazia. Con le loro
preghiere per la pioggia, a Sukkòt, e per la rugiada,
a Pesach, gli ebrei invocano questa grazia, sperano
di veder scendere queste acque e si rallegrano della
loro venuta.
Ma, oltre a questa funzione vitale per ogni vita
sulla terra, l’acqua, e più precisamente la rugiada,
simboleggia la risurrezione. «È anche per una rugiada
celeste che risusciteranno un giorno coloro che
dormono in fondo alle tombe» enuncia a Sukkòt la
preghiera di Musàf. La chiusura della mem finale veglia
su questo segreto inconoscibile.
Tuttavia, se gli ebrei sperano questa risurrezione,
ciò non significa forse che, almeno talvolta, la
mem finale si socchiude e lascia percepire una luce?
Ora è forse il pianto degli uomini che ne conserva
la migliore memoria. Gerusalemme piange sul proprio
destino, le lacrime inondano le sue guance, senza
consolazione (Lam 1, 2), gli occhi di Geremia si
consumano nelle lacrime (Lam 2, 11). Ma gli uomini
verserebbero lacrime se, rassegnati alla loro tragica
finitezza, pensassero che le acque inferiori costituiscono
il loro unico destino? L’acqua delle lacrime
sarebbe offerta loro, venuta dal più profondo di loro
stessi, se il loro corpo emozionale non presentisse
che l’apertura della mem significa, da ultimo, una
promessa di gioire, al termine dell’esistenza, della
bellezza sconosciuta perché al presente ancora trattenuta
dalla mem finale che, nella Bibbia, si chiama
Eden? Le lacrime colerebbero senza questa speranza,
così irragionevole, di portare un giorno lo sguardo
su questo luogo, maqòm, da cui usciva il fiume? La
doppia grafia della lettera mem, nella parola mayim,
ne propone, almeno a coloro che amano ascoltare e
guardare le lettere ebraiche, un assaggio.
In ebraico la parola luogo, maqòm, inizia,
anch’essa, con una mem aperta e termina con una
mem chiusa. Ma il desiderio all’opera nella preghiera
degli uomini è di contemplare un luogo, fosse pure
sognato, chiamato Eden? Maqòm, dicono i saggi
nel Midràsh, non designa in nessun modo un luogo
meraviglioso; si tratta di uno dei nomi di Dio. Ora è
la presenza, fra di loro, di questo Nome che costituisce
la più alta speranza degli uomini.
I maestri deducono questo nome, maqòm, dal
passaggio dell’Esodo (33, 21) in cui Dio domanda a
Mosè di stare in un luogo presso di lui. Maqòm designa,
in questo versetto, la «cavità» della roccia in
cui Mosè si rannicchia per contemplare la traccia del
passaggio dell’Eterno. Bisognerebbe dunque dapprima
trovare questa «cavità», questa fenditura, simboleggiata
dall’apertura della prima mem, per tenersi
in prossimità del Luogo, ha-Maqòm, simboleggiato
dalla sovranità grafica della mem finale.
Ma dove cercare questa «cavità» se non in se
stessi? La mem aperta chiede qui, a ciascuno, che
cominci con l’aprire, in sé, un cammino che lo allontani,
per sempre, dalla pretesa di occupare il primo
posto. Ma questa umiliazione inflitta all’orgoglio,
dalla mem aperta, non equivale in alcun modo a un
castigo. È al contrario una grazia poiché insegna a
non confondere le due mem soprattutto quando si
tratta di sé. Se la mem aperta incita a trovare in sé la
«cavità», che permette di dimorare in prossimità di
Colui che passa, senza installarsi da qualche parte,
è precisamente per prevenire l’esilio di Dio lontano
dagli uomini.
La presenza divina è infatti incompatibile con
l’orgoglio, dice il Talmùd (‘Eruvìn, 34a), vale a dire
con la certezza di essere se stessi una mem finale,
altezzosa e plenaria. L’Eterno non prende mai posto,
qui o là, in un luogo particolare. Egli passa, ed
è questo passaggio che orienta lo spazio e dà così
senso all’idea di luogo. Lo sanno tuttavia soltanto
coloro che non portano uno sguardo unicamente interessato
sui luoghi del mondo, per appropriarsene.
Se ne rallegrano soltanto coloro che li contemplano,
meravigliati, nella traccia della mem finale di cui non
pretendono di impadronirsi, poiché sanno che percepirla,
anche solo di sfuggita, è indimenticabile.
Questa traccia annuncia la promessa che il velo –
che ancora nasconde il segreto della mem finale – si
leverà per coloro che l’hanno amata e che, pertanto,
hanno amato anche lo sguardo che essa faceva
portare loro sulle creature, senza mai arrendersi alla
corruzione e alla disperazione profonda che affligge
quelle che non sono desolate per l’assenza di Dio.



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