L'illusione di sentirsi intero
Recensione a
Stazioni intermedie di Vladimir Vertlib
di Marilia Piccone - Stradanove.net
La diaspora del popolo ebraico è iniziata duemila anni fa. Anche prima, se vogliamo essere precisi. Duemila anni di esilio e di ricerca di un luogo in cui poter vivere in pace. Sempre pronti a rifare i bagagli, a chiudere bottega- per così dire- alla prima minaccia di pericolo o a pericolo scampato, a mettersi in marcia e ricominciare altrove. Quando si parla dell’ “ebreo errante” non si tiene conto del dolore dello sradicamento e della fatica di affrontare l’ignoto, anzi, sembra quasi che i continui spostamenti siano un capriccio, o una tara caratteriale.
Il bel libro autobiografico di Vladimir Vertlib, “Stazioni intermedie”, è una storia che salta da un paese all’altro, da un aereo all’altro, da un aereo a un treno, accesa da speranze che si spengono, bagnata da lacrime per il distacco, condita da difficoltà di ambientamento, di trovare un lavoro e una casa. In più, almeno per il giovane Vladimir, i viaggi continui portano a domande sul perché di tutto questo e a problemi di identità. Perché identità è appartenenza, è la lingua e la cultura che ci hanno circondato dalla nascita- ma qual è la lingua di Vladimir? Il russo che ha imparato nei primi anni di vita a Leningrado, l’ebraico appreso con fatica nei due periodi passati in Israele, il tedesco parlato nei lunghi soggiorni in Austria, l’inglese degli anni americani? Ebbene, “Stazioni intermedie” è scritto in tedesco.
Russia-Israele-Austria-Italia-Austria-Olanda-Israele-Italia-Austria-Stati Uniti- ancora Austria nel 1981: questo l’itinerario della famiglia Vertlib. Da far perdere l’orientamento. Il libro inizia da un tempo vicino, con il ritorno di Vladimir alla città che ora si chiama di nuovo San Pietroburgo, per incontrare l’anziana nonna. Dapprima ci sono solo dei lampi di ricordi del passato, di quando la famiglia abitava in Unione Sovietica e della prima, sofferta richiesta del visto per l’espatrio. Poi ci si tuffa nel tempo ormai lontano. La prima partenza, pur con il dolore di abbandonare i parenti, è segnata da entusiasmo ed eccitazione: non si va in Israele, si torna in Israele, la terra promessa dove finalmente non dovranno più temere niente, dove non saranno più segnati a dito o chiamati ‘sporchi ebrei’.
La realtà è una delusione e- attraverso le parole del bambino Vladimir- incominciamo a capire le dinamiche famigliari. E’ vero che i sogni spesso si infrangono nell’impatto con la realtà, è vero che la fratellanza idealizzata si rivela essere una stretta convivenza con persone con cui non si ha assolutamente nulla in comune. Ma è vero anche che il padre di Vladimir è un uomo incapace di adattarsi, di vivere il presente, di modificare il suo immaginario. Mentre la madre- una laurea in fisica in Unione Sovietica- si piega a qualunque lavoro, umile e sottopagato, cerca di arginare gli svolazzamenti utopistici del marito per poi piegarsi e fare quello che vuole lui, finendo infine per fare le valigie.
Vladimir racconta la sua vita di bambino che è costretto a lasciare gli amici proprio appena è riuscito a ‘trovarli’, a cambiare scuola e lingua quando si è finalmente inserito, a vivere nell’incertezza del futuro che dipende dall’arrivo di un visto o da un permesso di lavoro per i genitori. E’ stancante vivere così. Significa accumulare uno straordinario bagaglio di esperienze, una ricchezza di accumulo di culture diverse- ma è difficile per un bambino apprezzarlo. Tanto più che proprio il confronto con gli altri lo porta inevitabilmente a chiedersi in che cosa consista l’essere ebreo: “per me l’ebraismo è una comunanza di destini.”, dice ad un’amica russa dei genitori che ribatte: “E’ davvero tragico. Russi non potevate essere, veri ebrei non lo siete più, ma non siete neanche goyim”.
Un romanzo di formazione a tappe, con fermate nelle ‘stazioni intermedie’, a volte triste e a volte buffo. Una rivisitazione dell’eterna storia dell’ebreo errante.