Roberto Saviano su L'Affaire Dreyfus di Émile Zola
Nei momenti insopportabili del quotidiano, quando le notizie ti
raggiungono come prova oggettiva dell'impossibilità di poter vivere in
un paese giusto, quando ti accorgi che la soluzione adottata dai più è
abbandonarsi al livore o alla rassegnazione, ci sono pensieri che
riescono a concedere una possibilità di soluzione. Qualcosa in più di un
semplice conforto. Così almeno è per me. Queste pagine di Émile Zola,
che dopo molti anni tornano a essere pubblicate in Italia, sono una
sorta di preghiera, versi che reciti in silenzio, a mente, che la
memoria ti restituisce proprio quando servono a confortarti e non
perdono bellezza mai, anche a ripeterli infinite volte.
"Ed è
volontariamente che mi espongo. Quanto alle persone che accuso, non le
conosco, non le ho mai viste, e non nutro contro di esse né rancore né
odio. Per me sono soltanto entità e spiriti di malvagità sociale. E
l'atto che compio oggi non è che un mezzo rivoluzionario per sollecitare
l'esplosione della verità e della giustizia. Non ho che una passione,
quella della chiarezza, in nome dell'umanità che ha tanto sofferto e che
ha diritto ad essere felice".
Queste parole di Zola sono una carica esplosiva montata negli interstizi di ogni scritto letterario, di ogni pagina
di
narrativa, sono oramai nel dna di ogni scrittore. Dopo queste sue
parole, si è potuto non condividere, ma non ignorare. Il J'accuse di
Zola è protesta infiammata, grido dell'anima che attraverso il dramma di
Alfred Dreyfus racconta l'agonizzante democrazia francese, vessata da
guerre tra poteri e preda di corruzione diffusa, nel tentativo disperato
di sottrarre la giovane Repubblica a una fine precoce. Al principio
Zola, come ogni scrittore, è sedotto dalle vicende umane, pronte per
divenire palcoscenico di storie nei suoi libri. Ma mentre si trova a
Roma a raccogliere informazioni per il secondo romanzo della trilogia
Les trois villes, qualcosa entra nel suo corpo, tormentandolo.
Quel
qualcosa, come il contagio di una malattia, come una febbre improvvisa,
è la vicenda del capitano Dreyfus. Rientrato in patria, scrive il
J'accuse perché l'affaire è molto più di un caso giudiziario: è un punto
di svolta. Zola intuisce che se la vicenda non arriva alle persone, se
non entra nei dibattiti - a tavola mentre si mangia, mentre si è in
fila per entrare in fabbrica, quando ci si saluta e si commentano le
ultime notizie - l'intero architrave della Repubblica francese è
destinato a crollare nel silenzio omertoso e colpevole di una gigantesca
ingiustizia realizzata come il più ovvio degli accadimenti. Come un
temporale, un nubifragio, come l'ennesimo evento della nostra vita.
Zola, invece, comprende le potenzialità comunicative di ciò che sta
accadendo: per la prima volta in Europa la carta stampata ha un peso
dirompente nell'orientamento dell'opinione pubblica e per la prima volta
gli intellettuali, uniti, si schierano in difesa dei diritti umani. Per
la prima volta le parole dei romanzi, i tratti dei dipinti, le note
degli spartiti, il marmo delle sculture, le formule dei chimici
diventano scudi in difesa dell'uomo, del diritto e della democrazia.
Dopo
la condanna di Dreyfus, la sua famiglia con l'aiuto di alcuni -
pochi - intellettuali francesi, si mobilita per cercare di riaprire il
processo, ma la svolta arriva, inattesa, solo con la pubblicazione del
J'accuse di Zola: un attacco frontale contro esercito e politica. Un
testo breve e conciso che ripercorre la vicenda di Dreyfus, individua
responsabilità e omissioni, con nomi e cognomi. E la risposta non si fa
attendere: il potere politico-militare, a dimostrazione della sua forza,
decide di perseguire Zola che viene condannato per vilipendio delle
forze armate al massimo della pena, un anno di carcere, e a una multa di
3000 franchi. Zola decide per l'esilio a Londra, ma la breccia è aperta
e tutto precipita: il ministro della Guerra Cavaignac è costretto ad
arrestare il colonnello Henry, che aveva fabbricato le false prove a
carico di Dreyfus. Dopo la confessione, Henry si uccide in carcere e la
Corte di Cassazione accoglie la richiesta di revisione del processo a
carico di Dreyfus perché risulta evidente che l'affaire non è stato un
errore giudiziario, ma una macchinazione ordita per trovare un capro
espiatorio.
Nel 1899 inizia il secondo processo a Dreyfus, ma il
tribunale di guerra lo dichiara nuovamente colpevole di tradimento e lo
condanna a dieci anni di lavori forzati. L'indignazione generale porta
alla concessione della grazia: Dreyfus fu costretto a scegliere tra la
verità e scontare la condanna da innocente all'inferno o la menzogna,
cioè ammettere come propria una colpa non commessa, e chiedere di
riavere la libertà per invecchiare in pace. Scelse la seconda strada,
deludendo molti suoi sostenitori, ma riebbe la vita e la possibilità di
rivedere la sua famiglia. Scrisse una lettera al presidente della
Repubblica Loubet in cui ammetteva la propria colpevolezza e chiedeva la
grazia. Dopo questo triste epilogo, in Francia si tentò di nascondere,
smussare, dimenticare, insabbiare. A dicembre del 1900 viene concessa
l'amnistia per tutti i reati commessi in relazione all'affaire. Zola è
amnistiato, ma lo sono anche tutti i militari coinvolti benché
colpevoli. A luglio del 1906 la Corte di Cassazione annulla la sentenza e
Dreyfus viene reintegrato nell'esercito. Morirà nel 1935 e, cosa
davvero incredibile per la democrazia francese, solo nel 1995 - 60
anni dopo! - l'esercito francese ammetterà definitivamente la sua
innocenza.
Esistono storie, come questa, che quando le incontri non puoi più cacciarle da te.
Émile
Zola mi ha insegnato che quando una storia ti entra dentro, tutto
cambia. E non puoi riferirla, raccontarla, scriverne senza che i tuoi
lettori sappiano tu da che parte stai. Ma allo stesso tempo capita che
prendere posizione non sia facile. A volte equivale a eccitare la bestia
che d'ora in poi guarderà te, per colpirti in maniera esemplare e
dissuadere chiunque voglia seguire il tuo esempio. E la linea che separa
uno scrittore da un intellettuale sta proprio qua: nella consapevolezza
che la scrittura debba essere difesa dell'uomo. Che scrivere sia lo
sforzo estremo, spesso vano ma necessario, di sottrarre un'era alla
barbarie.
Émile Zola è diventato il simbolo dell'intellettuale
che ha rinunciato consapevolmente alla tranquillità, alla serenità della
sua famiglia - infangata con metodi che in Italia conosciamo bene -
e alla sua stessa vita, finita in circostanze ancora non chiare. Dopo
di lui è stato normale, quasi ovvio, per gli artisti, per gli
intellettuali di tutto il mondo unirsi per difendere cause che
meritassero attenzione, impegno, luce. Una prassi consueta, solita,
ormai diffusissima ma che a inaugurare - con una potenza per l'epoca
dirompente - fu proprio Zola.
Se chi mi legge non conosce
ancora il J'accuse, che non aspetti tempo e non lo perda ancora con me
leggendomi. Vada a quelle parole che, necessarie per Dreyfus e la
Francia, lo divengono universalmente per chiunque sconti l'aggressione
del potere. Perché anche le nostre notti non siano "ossessionate dallo
spettro dell'innocente che espia laggiù, tra le più atroci torture, un
crimine che non ha commesso".