Assaggio di lettura: Una strana fortuna di Maurice Grosman
Il primo capitolo del romanzo autobiografico di Maurice Grosman
Una strana fortuna - Collana Diaspora
Fine 1942
L’ambulanza corre sull’acciottolato con un rumore che
si accumula a quello del motore. Ogni scossa procura una
fitta dolorosa, dall’anca al ginocchio.
Seduto o, meglio, rannicchiato nello stretto abitacolo,
l’infermiere, un omino placido, guarda attraverso il finestrino
della portiera posteriore attorcigliandosi un baffo.
Un odore sgradevole di gas di scappamento si mescola
all’odore dell’etere aggiungendo la nausea al dolore lancinante.
Torco il collo per tentare anch’io di vedere all’esterno,
ma, disteso come sono sulla barella, riesco a scorgere
soltanto le cime degli alberi, gli ultimi piani delle case e un
cielo grigio, opprimente, privo di luminosità.
In ogni caso non servirebbe a molto riuscire a vedere
di più. Siamo nella periferia di Parigi. È all’incirca tutto
quello che so.
Ieri sera mi hanno detto che avrei cambiato ospedale.
Un’infermiera ha messo nella mia piccola valigia i vestiti
che portavo all’inizio, il giorno che il medico mi ha detto
che non sarei tornato a casa.
Sembra così lontano! Era il mese di giugno...
Ho già passato sei mesi disteso in un letto, con il gesso
che rende penoso ogni minimo movimento. Quello che
provo è quello che deve provare un coleottero cascato sul
dorso.
Ho sentito dire che andiamo a Garches. Sarà il mio
quarto ospedale.
Questo odore nauseante. Queste scosse. Vorrei addormentarmi,
o perlomeno sonnecchiare un po’. Ma un’inquietudine
sorda mi tiene sveglio.
Alla fine mi faccio coraggio:
«Scusi, signore, è ancora lontano?».
L’infermiere fa un sospiro a fior di labbra, poi ci mette
un bel po’ a rispondere, come se la domanda avesse interrotto
il suo fantasticare assorto:
«Mah... Un quarto d’ora...».
Ancora rami spogli e, di tanto in tanto, un edificio alto,
stretto, con la facciata di mattoni, come se ne può vedere
ovunque nella periferia di Parigi.
Ci si ferma. Si riparte. Svolte ad angolo retto che mi
sballottano verso il bordo della barella.
Infine l’ambulanza rallenta, poi gira e supera a passo
d’uomo un ultimo ostacolo: senza dubbio la soglia di
un’entrata. Si va ancora avanti a velocità ridotta e, infine, il
veicolo si ferma.
Era tempo. Ho veramente la nausea.
L’infermiere apre la portiera posteriore e scende fischiettando,
poi si volge di nuovo verso l’interno per prendere
la mia valigia e la cartellina che contiene la mia cartella
clinica.
«Ancora un po’ di pazienza, vengono subito a prenderti
».
Un po’ di pazienza! Quante volte, da mesi, mi hanno
raccomandato di avere pazienza? Io non faccio altro che
avere pazienza.
Fuori, è arrivato qualcuno. Li sento scambiare brevemente
qualche parola. Infine, un tipo grosso, ben piantato,
impugna le stanghe della mia barella e la fa scivolare verso
di sé; un altro, con un camice bianco, afferra l’altro lato.
Il freddo pungente di fuori mi prende alla sprovvista.
Mi tiro fin sopra le spalle la ruvida coperta scura che,
anch’essa, non profuma. Faccio in tempo a vedere una facciata
di pietra con alte finestre e un solenne portone a cui
portano pochi scalini.
Mi depongono in un atrio pavimentato di travertino.
Porte finestra bianche, bacheche coperte di scartoffie. Un malato con un pigiama bianco, appoggiato a due grucce,
mi guarda, l’espressione abbrutita dalla noia. E di nuovo
questo odore di varichina e di etere che dà alla testa.
Infine una donna dalla statura imponente e dall’aspetto
energico, fasciata in un grembiule bianco, con una specie
di cuffietta sui capelli, si avvicina e prende la cartellina che
l’infermiere le porge. La apre, la sfoglia.
L’inquietudine continua a rodermi. Nessuno mi ha
detto perché mi portavano qui. Ignoro anche quello che è
scritto nella cartella clinica. Cosa mi aspetta ancora?
Mentre guarda la cartella, l’infermiera scuote la testa:
«Ah, d’accordo... Proprio così dunque... ne avrà per
un bel pezzo questo qui... Bene. Me lo portate al primo
piano, nella camera 16. È quella delle lunghe degenze. Abbiamo
potuto liberare due letti questa settimana...».
Le «lunghe degenze». Queste parole le ho sentite come
una mazzata sul cuore. Io sono «una lunga degenza».
Parlando, l’infermiera continua a sfogliare i referti della
cartella. Infine mi rivolge lo sguardo:
«Tutto bene, giovanotto?».
«Mi fa male».
Lei fa un cenno di assenso con la testa accompagnato
da una smorfia delle labbra, senza fare commenti, poi,
guardando di nuovo la cartella:
«Grosman... del XVIII arrondissement... Cosa fanno i
tuoi genitori?».
«Sarti. Sarti per signora».
«Capisco...».
Cosa capisce? Io non capisco cosa intenda dire.
Poi si rivolge di nuovo all’infermiere:
«In fondo, forse questo qui ha più fortuna di quanto
creda».
Fortuna? Perché mai sarei fortunato. E perché ha voluto
sapere il mestiere dei miei genitori?
Ma non oso domandare niente, e lei non sente il bisogno
di dire di più. Gli adulti sono così. In tutti questi mesi,
mai che si siano dati la pena di spiegarmi qualcosa.
«Forza, andiamo!».
Di nuovo mi sollevano. Gli scalini obbligano i due uomini a inclinare leggermente la barella. Io mi sento scivolare
verso il basso e sento male. Loro sembra che non se ne
rendano conto.
Un lungo corridoio, simile ad altri corridoi nei quali
mi hanno trasportato dalla primavera scorsa in altri edifici
simili, con lo stesso odore e gli stessi infermieri vestiti di
bianco. Infine l’infermiera apre una porta e dice ai portantini:
«Eccoci! Me lo mettete nel terzo letto a sinistra... Torno
da te tra un momento, ragazzo mio».
E sparisce.
Entriamo. È uno stanzone, con una decina di letti per
parte. Nel mezzo, una stufa il cui tubo sale fino al soffitto
verdastro. Degli sguardi si girano nella mia direzione. Ci
sono bambini più piccoli di me; altri invece sono grandi, sui
quattordici o quindici anni.
I due infermieri depositano il loro fardello, poi mi
sollevano prendendomi sotto le ascelle e le ginocchia per
stendermi sul letto. Ancora una fitta che dall’anca arriva
alla coscia. Faccio una smorfia di dolore e mi sfugge un
gemito.
«Ecco fatto, giovanotto... Ci siamo... Forza, coraggio!».
Coraggio. Anche questo è il mio pane quotidiano. Pazienza
e coraggio. Le persone grandi dicono cose che non
hanno alcun senso. Cos’è il coraggio?
Sono comunque obbligato a sopportare tutto quello
che mi fanno subire. Quando uno non ha scelta, non ha
bisogno né di coraggio né di pazienza. Si sopporta, e questo
è quanto.
Sospiro mentre escono dalla stanza.
Ecco dunque il mio nuovo ambiente. Niente di diverso
da quello che vedo tutti i giorni da mesi. Un ambiente in
cui, fin dal primo minuto, hai visto tutto quello che c’è da
vedere, semplicemente perché non offre niente di interessante.
I muri verdastri, la stufa nella luce livida che filtra
dalla finestra, laggiù, in fondo.
Lo scenario della solitudine e della noia.
Di fronte a me, due discutono a bassa voce. Alcuni
hanno l’aria di dormire. Altri leggono. Da ora in avanti saranno questi i miei compagni. Rimpiazzeranno quelli che
ho lasciato negli altri tre ospedali.
Mi tornano in mente le parole dell’infermiera: «Forse
questo qui ha più fortuna di quanto creda...».
Fortuna? Cosa avrà voluto dire? Anche questo si aggiunge
a tutti i misteri angoscianti che circondano la mia
vita.
Sono passate delle ore. A poco a poco mi abbandono a
un torpore triste, mi lascio fluttuare nella sonnolenza. Dentro
di me si formano delle immagini, delle sensazioni. Sono
ancora trasportato. Sono disteso, sempre disteso... preda
dell’ansia... Non è un’automobile, è un treno che procede
lentamente, molto lentamente. Dal finestrino, allungando il
collo, riesco a intravedere degli alberi, dei pali del telegrafo.
Poi rallenta ancora e, con uno sgradevole stridore di
ferraglia, il treno si blocca. Sono in una stazione. Ora, non
so come, vedo quello che c’è fuori.
È un luogo anonimo: dei pilastri, delle pensiline, degli
uomini con il berretto che camminano, della gente che
aspetta.
E lì, improvvisamente, sulla banchina, vedo mio padre
e mia madre, le mie sorelle, il mio fratellino Simon. Forse
sono lì per accogliermi? Forse verranno a prendermi,
mi porteranno da loro? Faccio dei grandi cenni, batto sul
vetro, ma sembra che non mi vedano. Non si muovono,
non hanno alcuna espressione, sembra che aspettino senza
sapere cosa aspettino. Non guardano neppure nella mia
direzione. Io mi spazientisco, gesticolo, ma invano, il finestrino
dello scompartimento è chiuso ed ecco che il treno
riparte, faticosamente, fischiando a lungo. C’è un errore...
Hanno dimenticato di farmi scendere qui... Come fare per
allertare qualcuno, ora, come far fermare questo treno che
non doveva portarmi via?
«Ecco il dottore!».
Ero quasi riuscito ad addormentarmi. O perlomeno a
sprofondare in questo dormiveglia incerto popolato da sogni
vaghi, sempre simili, ma che ha il vantaggio di far passare
il tempo. All’ospedale è sempre quando siamo riusciti ad addormentarci che arriva qualcuno: per i pasti, per le
medicine, per le pulizie...
Davanti ai miei occhi di nuovo la camerata, i muri spogli,
la luce livida.
In fondo al mio letto c’è l’infermiera di prima, che accompagna
un uomo sulla cinquantina, più basso di lei e con
il viso e il corpo grassoccio, i capelli brizzolati, e sul naso
degli occhiali spessi.
«È da molto che è arrivato?».
L’uomo parla velocemente, articolando appena le parole.
«Verso le nove... Ecco la cartella clinica».
«Mmh... Mi faccia vedere... Come va, ragazzo? Vediamo,
vediamo... Incrinatura sotto l’articolazione iliaca...
Ovviamente si è aggravato all’ospedale... Le ossa dell’anca
sono infettate... Ah, è una rogna, questo è sicuro. Messo
molto male... Hai la febbre qualche volta? Lo scopra...».
Parla senza guardarmi, senza aspettare le risposte alle
domande che pone. Si china sul gesso, mi palpa la gamba
dove è scoperta.
«Se alziamo il ginocchio, fa male? Mmh... Bene... Controlli
bene che non si formino assolutamente escare...».
Avvicina il naso al gesso:
«Non ha un buon odore... Bisognerà continuare con le
iniezioni».
Con un gesto distratto, tira su la coperta.
Le iniezioni: l’eterno supplizio. Lo strofinio del gesso
contro la carne provoca frequentemente un’infezione,
suppurazioni che è necessario pulire e che si riformano. La
terapia è penosa quanto il dolore stesso.
Il medico continua a scorrere con lo sguardo la mia
cartella.
«Mmh... Bene, in ogni caso opereremo quanto prima...
Vedrò i genitori... Per il momento continuare la terapia».
«Bene, dottore».
Ha già voltato le spalle e si dirige velocemente verso la
porta, sistemandosi con un dito gli occhiali spessi sul naso.
L’infermiera non si è mossa.
«Bene, ora ti sistemiamo un po’... Il dottore che hai appena visto è il dottor Daviel, il primario. Io sono la signorina
Angéline, la caposala».
Mentre parla, apre la mia valigia; ne controlla il contenuto,
prende una fotografia in una cornice.
«Te la metto sul comodino? È la tua famiglia?».
«Sì, signora».
«Signorina! Dimmi, siete tanti...».
«Ho tre sorelle e un fratellino».
«E allora, quand’è che verranno a trovarti i tuoi genitori?
Hai sentito, il dottore vuole parlarci...».
«Mah... Non lo so, signorina».
«Come! Non sai quando verranno a trovarti i tuoi genitori?
Non te lo hanno detto?».
«È tanto tempo che non vengono. Non so perché».
«Ah!...».
Guardandomi con occhi pensierosi, scuote la testa.
Comincio a sperare che mi dirà qualcosa. Forse lei lo sa
perché non vengono più.
Ma il miracolo non avviene. Lei dice soltanto:
«Bene, non te la prendere, a questo ci penseremo dopo...
».
Indica il mio gesso:
«E questo come te lo sei fatto, dimmi, raccontami un
po’».
«A scuola, signorina...».