Recensione a 1948 su Ilsole24ore
di Giulio Busi
«Sono molto vecchio e ho il cervello vuoto. Non mi ricordo niente di più di quello che sto scrivendo qui». Yoram Kaniuk non si fida dei ricordi, e non solo dei propri: «la memoria è furba, e non possiede un’unica esclusiva verità». E proprio grazie a questo inguaribile scetticismo, che il suo 1948 si rivela forse il più bel romanzo mai scritto sulla lotta d’indipendenza israeliana. Testo crudo, spesso atroce, osceno com’è oscena la guerra. È un racconto autobiografico, che dà voce alle esperienze di un ragazzo poco più che diciassettenne, partito volontario con precipitazione e leggerezza adolescenziali. A decenni di distanza degli eventi, lo scrittore sa di tentare un’operazione quasi impossibile, poiché le emozioni di un tempo si sono stemperate tra rimorsi e rinunce. La trama è labile, con poche boe psicologiche a segnare il tragitto. Yoram non è un eroe, eppure non riesce ad aver paura. Non è un assassino, ma raramente prova compassione. Uccidere o essere ucciso, resistere alla fatica, all’ignavia dei superiori, alle piccole bassezze dei commilitoni. A ogni colpo sparato, le sue certezze si fanno più confuse, anche se si rende conto di essersi ormai trasformato in un veterano. La dote migliore di Kaniuk è la sua antiretorica. Il giovane protagonista è vitale, e il vecchio che ne commemora le gesta ha l’amarezza della fine. Entrambi non sono all’altezza delle loro ambizioni, così come la loro guerra è ben più meschina degli ideali che avrebbe voluto servire. «È successo oppure no?» si domanda Yoram. Se è successo, dev’essere proprio andata così: insensatezza del sangue allora, mestizia del ricordo, ora.