Bashir Abbass conosceva il greco antico. Doveva ringraziare la madre, cattolica
palestinese, che gli aveva trasmesso fin dalla più tenera età la passione
per i Vangeli nella loro veste originaria, in quella lingua comune e bastarda che
parla di Dio come i pescatori parlano di reti. E anche il suo nome testimoniava
l’amore per il Nuovo Testamento: l’arabo Bashir, infatti, significa “latore di
buone notizie”. In altre parole, un evangelista. Ma se Abbass non avesse diretto
i lavori di restauro di una moschea alla periferia di Ramallah, questo talento gli
sarebbe valso poco, almeno in termini economici.
Quando la terra sprofondò, era quasi mezzogiorno. Il sole irruppe gioioso
nell’anfratto, sotto le fondamenta del minareto. Gli operai si spaventarono a morte,
anche perché la grotta, che gli studiosi avrebbero poi datato al periodo romano,
conteneva due teschi e alcuni frammenti ossei, oltre a cinque anfore. In
quell’incontro delle tenebre con la luce Bashir, musulmano come il padre, vide
esemplificato un versetto del Corano sull’onniscienza e la doppiezza di Allah:
«Fa penetrare la notte nel giorno e il giorno nella notte, e conosce perfettamente
quanto nascondono i cuori».
Dal padre aveva appreso, oltre alle sure, l’arte degli affari. Una delle regole
suonava più o meno così: «Chi tardi arriva male alloggia». Ligio ai precetti,
Bashir concesse una pausa più lunga ai suoi dipendenti e ispezionò prima degli
altri il contenuto delle anfore. Mentre guardava all’interno degli antichi vasi, fu
assalito da un timore assurdo: veder spuntare la testa di un ladrone, come era
accaduto alla schiava Morgiana nella fiaba di Alì Babà. E benché non vi fossero
furfanti nelle prime quattro anfore, nondimeno l’ultima celava un tesoro più
prezioso dell’olio di oliva della trentottesima giara.
Erano due rotoli di papiro, lunghi circa sei metri. Bashir, invece di esultare
con uno stentoreo adhan, mantenne la calma: li estrasse cautamente, se li fissò
alla cintola, risalì in superficie e si rinchiuse nella sua automobile. L’impazienza
nello spiare i secolari segni dell’inchiostro fu compensata dalle buone condizioni
del supporto. Sul sedile posteriore, a maneggiare da solo quei fogli enormi, si
sentiva più felice di quando, in vacanza a Cipro, se l’era spassata con un paio di
prostitute greche dalle forme giunoniche.
Lettere maiuscole. Alfabeto greco. La prima riga che lesse lo mise di buon umore:
APOLOGIA SWKRATOUS. Apologia di Socrate. Doveva trattarsi di quel filosofo
ateniese che era morto bevendo la cicuta. Roba importante. Avrebbero pagato
bene i quattrocchi dell’Israel Antiquities Authority. Già si vedeva organizzare festini
in un appartamento con vista sulla Tour Eiffel. Sì, perché Parigi era la sua città
preferita. Lì era nata mamma Louise, che aveva insegnato al figliuolo una lingua
morta senza sapere quanto gli sarebbe tornata utile, un giorno.
Il secondo rotolo sembrava scritto dalla stessa mano. Anche l’intitolazione
era simile. Cambiava il nome. E non era poco. APOLOGIA IHSOU TOU
NAZARAIOU. Apologia di Gesù il Nazareo. Bashir, che ormai aveva la camicia
incollata dal sudore, smise di respirare per mezzo minuto. In quell’intervallo di
tempo un inno ebraico di lode gli echeggiò nella mente: Hoshana! Hoshana!
Hoshana! Ripreso fiato, trovò la forza di decifrare altre cinque parole: EGW
IWSHF O APO ARIMAQAIAS... Io, Giuseppe di Arimatea… Colui che
aveva offerto il sepolcro nuovo per il corpo di Cristo.
Tanto gli bastava per capire che il patriarca latino di Gerusalemme lo avrebbe
ricoperto d’oro. Paris, j’arrive! Allah akbar.
Luigi Spagnolo - Il terzo testamento