Intervista a Enrico Mottinelli
Di Paola Carmignani - Il giornale di Brescia
Uno scavo nel dolore dei sopravvissuti ad Auschwitz, per cercare di capire, e di dare un nome a quell’inspiegabile sentimento di «vergogna» che proprio loro, i «salvati», vittime innocenti di un «Male assoluto», sentono addosso per il resto della loro vita. Lo ha fatto il bresciano Enrico Mottinelli, già autore di due romanzi, in «La neve nell’armadio. Auschwitz e la "vergogna del mondo". Con una conversazione con Edith Bruck». Il saggio offre una ricostruzione puntuale e molto documentata del tema, e una riflessione limpida e appassionante sul senso del passato e sulle vie da percorrere per il futuro. Mottinelli analizza il sentimento della «vergogna» delle vittime di immani violenze, e lo collega alla «vergogna del mondo» di cui parla Primo Levi, sentimento di chi ha varcato una soglia di disumanizzazione, da cui non si torna più indietro. Ne abbiamo parlato con l’autore.
Perché ha intitolato il suo saggio «La neve nell’armadio»?
Ho preso in prestito il verso di una poesia di Nelo Risi, che racconta il momento della cattura di sua moglie, Edith Bruck. L’immagine mi ha molto colpito: il luogo intimo della casa invaso dalla neve, un elemento esterno, gelido, indica la violazione dell’intimità della casa e della persona. Mi pareva un’immagine in sintonia con la Shoah.
Come mai ha usato la parola Auschwitz per indicare l’Olocausto o Shoah?
Il problema di dare un nome a quell’evento è molto dibattuto, non esiste un termine su cui tutti sono concordi. Olocausto, ad esempio,è molto usato in ambito anglosassone, ma nel mondo ebraico non è molto accettato. Ho scelto Auschwitz, anche se può essere limitativo, perché è un termine legato a un luogo, il luogo per eccellenza dello sterminio.
Fra i molti possibili, come ha scelto il tema della «vergogna»?
Leggo libri su Auschwitz da sempre. Periodicamente mi ci immergo. Mi ha colpito il tema paradossale della vergogna della vittima, volevo capire che cosa ci fosse davvero dietro quel sentimento. Ho iniziato a coniugare il tema generale della vergogna con il tema delle vittime di Auschwitz. Man mano questa parola, che a partire da Primo Levi è presente nella letteratura, mi è parsa un fulcro per mettere ordine nel caos, nella massima espressione del «non senso», rappresentata dalla Shoah.
Lei parla di un passaggio del testimone dai superstiti dei lager, che in questi anni hanno raccontato la loro esperienza e che per motivi anagrafici sono sempre di meno, e noi, che pur non avendo avuto un’esperienza diretta, siamo ugualmente coinvolti e investiti di una responsabilità...
Questo è il tema centrale del libro. Mentre scrivevo, continuavo a domandarmi che diritto avessi di dire qualcosa su questa vicenda.Non mi ha riguardato da vicino, nemmeno ha riguardato la mia famiglia. Non ho nessun titolo o diritto per parlare. Poi però mi sono reso conto che, se non avevo nessun diritto, avevo però il dovere di affrontare il tema della Shoah, soprattutto perché sono un cittadino europeo, e l’Europa affonda le sue radici anche nei campi di sterminio. Abbiamo il dovere di sapere, di confrontarci e anche di dire qualcosa. In che modo Auschwitz ci riguarda? Ci riguarda in quanto esseri umani. Quello che lì si rivela, e per cui si prova
la «vergogna del mondo» di cui parla Primo Levi, ci riguarda, perché viene messa a nudo una realtà dell’essere umano. Quello che è successo dice qualcosa di quello che sono io, adesso, qua. Questa è l’attualità tragica di quell’evento. Anch’io sono vittima, perché sono messo davanti alla mia realtà di essere umano. È qualcosa che continua ad accadere.
Lei osserva anche che la Germania è l’unico paese che si è confrontato davvero con quello che è accaduto ad Auschwitz, mentre altri paesi, Italia compresa, hanno scaricato il problema come se non fosse anche loro.
Paradossalmente quelli che si sono confrontati di più, anche se con qualche fatica, sono stati i tedeschi, e l’hanno fatto davvero. L’Europa e il resto del mondo non hanno ancora affrontato il tema della colpa.
Lei afferma che alcuni film sulla Shoah, come «La vita è bella» o «Schindler’s List», possono avere un effetto fuorviante per le nuove generazioni...
Su «La vita è bella» il dibattito è stato ed è acceso. I film, d’altra parte, si confrontano con la difficoltà di rappresentare l’irrappresentabile. Nemmeno i messaggi scritti dai Sonderkommando - gli addetti ai forni crematori, gli unici che sanno che cosa accadeva nel cuore dell’inferno - riescono a dire del tutto quello che succedeva nei lager. Nei loro scritti, sotterrati in barattoli e, anche recentemente, recuperati, si racconta qualcosa, e si aggiunge che è successo «ben altro» rispetto a ciò che è raccontato. Perfino loro non avevano parole per dirlo. Farlo con un film, è impossibile. Valgono le testimonianze dei «salvati», e la riflessione di chi ci medita sopra.
Perché ha deciso di chiedere una testimonianza alla poetessa e scrittrice Edith Bruck?
Volevo dare la parola a chi è titolato a dire quello che è successo. Sono andato a Roma a conoscerla, mi ha offerto subito la sua amicizia. La nostra conversazione è riportata nel libro.
Cosa l’ha colpita di più fra le cose che le ha detto?
Quando le ho chiesto: cosa si può fare per evitare che accada una nuova Auschwitz?, la sua risposta all’inizio mi ha lasciato perplesso. Lei, nata in una famiglia poverissima, ricordava l’insegnamento di sua madre, che li esortava a dividere sempre il pane con chi non ce l’ha. All’inizio non capivo cosa c’entrasse questo con la Shoah, mi pareva una cosa così piccola al confronto di una cosa enorme. Ma poi ci ho riflettuto sopra. Quello che è successo forse nasce davvero dall’incapacità di dividere con gli altri quello che si ha. «Se noi riuscissimo a insegnare ai nostri figli questa piccola verità - dice Edith Bruck -, forse Auschwitz non esisterebbe più
». Un tempo nessuno restava senza pane. Forse i mali più grandi nascono dalle piccole cose, alle quali non sappiamo più prestare attenzione.
Ha altri progetti?
Continuerò a lavorare su questo tema: ho raccolto tanti volumi su questo argomento. Mi immergerò di nuovo nei libri sulla Shoah.
Perché questo tema le appartiene
così tanto?
Credo che dica qualcosa di quello che siamo,senza che questo qualcosa lo si possa mai afferrare per intero.