INTERVISTA: Giulia Spizzichino

di Teresa Mancini - Leiweb

 

Testimone delle deportazioni e della tragedia delle Fosse Ardeatine, la storia di Giulia Spizzichino è ora un libro, "La farfalla impazzita". Noi l'abbiamo incontrata in occasione della Giornata della Memoria

Ha quasi tre anni Giulia, quando, con lo sguardo dolce e un po’ intimidito, posa in piedi su una sedia per un ritratto. Quell’immagine dal gusto di tempi lontani è datata 5 ottobre 1929, e quella bimba è Giulia Spizzichino, una piccola ebrea romana la cui vita, da lì a non molto, cambierà con una durezza inaudita: segnata prima dalle leggi razziali del 1938, poi dalle deportazioni di diversi suoi familiari ad Auschwitz, e ancora dalla strage che le strapperà altri sette cari, quella delle Fosse Ardeatine nel 1944, uno dei momenti più tragici dell’occupazione nazista a Roma. In una narrazione che diventa preziosa testimonianza storica, Giulia ricostruisce queste vicende nel libro “La farfalla impazzita” (Editore Giuntina, 168 pagg., 12 Euro), scritto con il sostegno di Roberto Riccardi. Dall’infanzia dell’autrice, percorrendo la storia della persecuzione ebraica nella capitale, si giunge fino al caso Erich Priebke, l’ex capitano delle SS stanato nel 1994 in Argentina, estradato in Italia grazie al contributo attivo di Giulia Spizzichino, e sottoposto a processo per l’eccidio delle Fosse Ardeatine.

In una tessitura che segue la cronologia degli eventi, i racconti si appiccicano a chi legge con forza e suggestione, tra immagini di gioventù negata, odiose restrizioni, guerra, timore della delazione, crudeltà, e un dolore lancinante che ha condizionato la vita dei sopravvissuti, per sempre. E pensando ai tantissimi bambini strappati alla vita, «possibile che lassù non sia vietato accettare angeli così piccoli?», scrive accorata Giulia Spizzichino, a cui adulta non sarà risparmiato neanche il dolore della perdita del proprio figlio, di soli 6 anni. Una tragedia sotto il cui peso finisce anche il matrimonio di Giulia, che poi si risposerà e sarà di nuovo madre, poi nonna di due adorati nipotini.

Nel volume c’è anche un contributo iconografico, con immagini di intima felicità familiare, come quelle di parenti a nozze, o il ritratto dell’amato nonno Mosè, «con le sue guanciotte tonde che profumavano sempre di borotalco». Fino agli scatti più recenti di questa donna, il cui vissuto e gli anni non hanno intaccato la bellezza né piegato la tenacia e il coraggio, compagni indispensabili per difendere la propria e la nostra storia.

Com’è nato il suo libro, qual è stata la spinta?
«L’ho scritto perché una serie di accadimenti non cadessero nell’oblio, e per lasciare una testimonianza agli amici. Alle Fosse Ardeatine, la mia famiglia è stata la più colpita dell’intera città di Roma. Sette vittime, tutti i maschi adulti che avevano catturato. Con lo zio Angelo mio nonno Mosè, suo figlio Pacifico e i tre figli maggiori di quest’ultimo: Franco, Marco e Santoro. È una cosa che ha colpito tutto il mondo, tre generazioni scomparse in un giorno solo».

Il volume si apre con le parole di Gabriel Marcel che sottolinea come ogni nuovo libro sulla Shoah sia utile, perché non si può essere “sazi” su argomenti come questi…
«È così. Non si tratta di stanca retorica. Ogni lacrima versata è una lacrima a sé, che merita di essere ricordata, raccontata. L’indifferenza è il terreno sul quale cresce il negazionismo, anche se non ho pensato al libro con questo scopo».

Come ha imparato a gestire la perdita di tanti suoi familiari? Come ci si può riconciliare con la vita, dopo l’orrore, ritrovare la propria intonazione?
«La vita riserva tanti dolori, ma obbliga a tirar fuori le unghie. Non puoi fermarti. Vai avanti, anche se sai che il peso dei ricordi, tutta quella sofferenza, li porterai con te, sempre. La perdita di mio figlio è stata lacerante. Sarebbe stato forse dolce lasciarsi morire, ma ho voluto lottare, resistere, anche per lui. Con gli anni si sono aggiunte altre prove, e poi la stanchezza dell’età, i problemi di salute che mi hanno reso più vulnerabile. L’imperativo, però, è rimasto lo stesso: continuare, mettercela tutta, risolvere».




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