Un arabo buono...

Recensione a Un arabo buono di Yoram Kaniuk

di Silvia Turato - Mangialibri.com
 

“Azury ed Eva hanno tentato di costruire un ponte, ma non si costruisce un ponte a letto. In bilico sulla sottile cucitura fra due parti opposte, l’unico risultato di quel connubio fu Yosef, cioè io”. Yosef è figlio di Israele, di quella striscia di terra promessa combattuta tra due popoli, due desideri e due diritti. Figlio di un grembo ebraico ma di lombi arabi: una condanna nata dall’amore ribelle di Azury ed Eva. Yosef è nato da quello strappo nel deserto su cui i suoi genitori hanno messo lui stesso a giuntura, a collegare, la loro personale risoluzione del conflitto. Eppure Yosef è il conflitto stesso, esploso in un bambino in lotta perenne con un nemico a cui sa dare un nome preciso e che vede riflesso nello specchio tutti i giorni. La storia dell’amore tra i suoi genitori viene da lontano, dai tempi in cui Eva era solo ancora un pensiero inespresso nei cuori di Franz e Kathe, ebrei tedeschi salvati proprio dall’affetto di Azury. La storia della sofferenza di Yosef invece “comincia in realtà molto prima del tempo cui risalgono gli storici”, lanciandolo alla vita nella tragedia millenaria dei popoli che compongono il suo sangue misto. E condannandolo all’impossibilità di essere, perché scegliere di essere figlio di Eva da parte di Azury o di Eva da parte di Franz non è possibile, perché un’identità non cancellerà l’altra, costringendo Yosef a essere proprio quella nebbia, quello strappo e quel mostro bifronte che per ciascuno dei suoi popoli è…
Un arabo buono è solo la prima parte di una sentenza che terminerebbe con una granata: “un arabo buono è un arabo morto”. Sin dal titolo quindi questo libro potente, poetico e che colpisce come uno schiaffo in pieno viso si propone pesantemente, senza lasciare al lettore via di fuga, costringendolo ad affrontare e a impregnarsi del dramma di Yosef. Si può dire che la costruzione dell’identità di ciascuno di noi si costruisce attraverso la lotta alle nostre radici, che c’è sempre un conflitto da superare per entrare nell’età adulta. Ma sarebbe sbagliato. Perché la tragedia che si trova ad affrontare Yosef non è generazionale, esistenziale, eppure è in qualche modo necessaria: in lui si condensa la storia di due antichissimi popoli, migliaia d’anni che finiscono come in un cuneo sulla sua testa. E il cui peso risulta schiacciante. Perché Yosef sarà costretto a essere sempre “minoranza persino nella tua terra”, “ebreo degli ebrei”. E “arabo degli arabi”, aggiungerei io. Straniero nella sua terra, straniero nella sua casa, ospite sgradito per chiunque venga alla porta. E questa è la sua confessione.




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