Uri Orlev - Poesie scritte a tredici anni a Bergen-Belsen (1944)
Recensione di Stefano Raimondi - PULP
“Scrissi la prima poesia quando ancora ci trovavamo nel nostro nascondiglio, nella parte polacca di Varsavia. È rimasta là. Quando il campo di concentramento fu ridotto, così come il numero dei bambini, ripresi a comporre poesie. Scrivevo la prima stesura su un'asse che avevo staccato dal mio tavolaccio e la ricopiavo sul taccuino...”. Ci sono poesie nate dalla bellezza e altre dal dolore, poesie scritte nella facilità del giorno e altre strappate alla notte. Alcune restano per far piacere, altre per far ricordare, come le poesie di Uri Orlev, - un giovanissimo ebreo polacco, il cui vero nome era Jurek Orlowski – che all'età di tredici anni perse la madre nel ghetto di Varsavia (uccisa dalle squadre naziste nel suo letto di ospedale) restando coi parenti (il fratello e una zia) che con lui sopravvissero alla morte. Nel 1943 furono portati poi a Bergen-Belsen e da lì la sopravvivenza divenne canto, traducendosi in versi. Questo fa sì che il taccuino di Uri Orlev (nome acquisito quando nel 1945, giunse in Palestina), resta un'importante testimonianza di come, un ragazzino di tredici anni, possa vedere il proprio mondo strappato all'umanità e la propria vita reietta, dentro un filo spinato, capace di dettargli parole ancora colme di umana speranza. Il volume riproduce le fotografie dell'intero taccuino slavato come una vita “altra” da salvare e che Orlev (oggi divenuto scrittore di fama internazionale e autore di libri per ragazzi e adulti), ci ridona con un'operazione ancora di trasmigrazione del proprio patire: la traduzione in ebraico di queste liriche scritte originariamente in polacco. È una poesia dell'evento, sono versi che raccontano in modo piano e visionario la realtà, che il protagonista patisce durante la sua segregazione. Sono tredici passi dove l'autore scandisce la morte della madre e la sua quotidiana spartizione della fame con gli altri, restando sempre un passo al di qua dell'odio e del disamore per la vita che, attraverso i gesti randagi di una volontà in bilico sulla follia, riesce comunque a farlo restare ancorato alla purezza della identità e dell'essere persona. Un testo che alla poesia non chiede nulla di particolare e neppure niente di bello, ma ci consegna poeticamente la durezza del vero e la caparbietà dell'autentico. Tradotte con una rima che a tratti porta alla semplificazione dell'intensità, rende comunque appieno il gioco ancora illusorio dell'età del poeta: tredici anni. “Tutto nella natura è così bello da incantare,/la vita soltanto è pronta ad ingannare”.