Alina Margolis Edelman - Una giovinezza nel ghetto di Varsavia
Wlodek Goldkorn ne scrive su L'Espresso
«Il ghetto continuò a bruciare molto a lungo, ma non si sentivano più gli spari. Proprio allora, là accanto al muro, per la prima volta nella vita mi sentii veramente ebrea. E capii che ormai per sempre, fino alla morte, sarei rimasta insieme ai carbonizzati, ai morti soffocati, ai gassati nei rifugi, a coloro che avevano combattuto ed erano morti perché non potevano non morire, a coloro il cui destino non avevo condiviso. E che cosa successe dopo? Dopo la vita proseguì sui suoi binari».
Così scrive Alina Margolis-Edelman in “Una giovinezza nel ghetto di Varsavia” (traduzione di Laura Quercioli Mincer, Giuntina, pp. 217, € 14,00). Alina, scomparsa sei anni fa, è stata medico pediatra e moglie di Marek Edelman, pure lui medico, comandante in seconda dell’insurrezione nel ghetto di Varsavia nel 1943 e punto di riferimento di ogni lotta per la democrazia in Europa dopo la guerra.
Alina non era da meno. E le parole citate sono la chiave della sua biografia. Lei era nata in una famiglia dell’alta borghesia: la madre, donna emancipata era anche lei medico. L’abbecedario che per decenni tutti i bambini polacchi hanno usato in prima elementare era dedicato ad Alina. E nel libro viene descritta un’infanzia bella, spensierata, se non per un pizzico di antisemitismo.
Poi tutto precipita. Arrivano i nazisti. Il padre viene fucilato, la madre porta lei e il fratello a Varsavia. Finiscono nel ghetto e il modo in cui descrive quell’esperienza è letteratura pura: per la bellezza, la precisione del linguaggio, la capacità di raccontare storie piccole e grandi, amore e morte. Ma poi «la vita proseguì sui binari», appunto. Nel 1969 Alina lascia la Polonia. Si trasferisce in Francia, dove è tra i fondatori dell’associazione Medici nel mondo. Lavora in Bosnia, Afghanistan, Ciad. Una vita esemplare.