Lettere dalla notte


Giovanna Piazza - Gli squadernauti

Giovanna Piazza recensisce Lettere dalla notte
del Premio Nobel Nelly Sachs sul blog Gli squadernauti.

La nostalgia (Sehnsucht) – dolore e desiderio del ritorno, tensione e 
superamento, ricongiungimento con l’origine – è il movimento che innerva le lettere. Si tratta di un tentativo di compimento che rimane irrisolto, sospeso, ed è immerso nell’incessante metamorfosi (Verwandlung) del mondo.

La trasformazione (“la morte si tramuta in vita”, p. 25) è radicale e investe la realtà e il sogno, elementi della natura e del mondo dell’uomo, i vivi e i morti. Sostanzia la stessa scrittura, che trascende la forma e si presenta frammentaria, onirica e avvinta a un moto tesissimo tra citazioni di testi sacri, racconto di esperienze trasfigurate e preghiera.

In questo libro, è evidente l’anelito all’alto, all’assoluto, eppure persiste l’accettazione profonda che tutto ciò che pertiene al mondo è scandalosamente preso nell’uguaglianza.

“Nelle notti, fuori dal letto, tutto il dolore che è in cammino si tiene per mano. Il verme appeso all’amo, il pesce al verme, la mano che tira il pesce, il tempo divenuto rigido nella gola”, pp. 24-25.

Per chi si dedica a un continuo esercizio per non smettere di sentire, per non divenire duro nel dolore, tutto emette segni. Il dolore però deve essere contenuto. 

L’eccesso, la disperazione lo è, è negazione della dimensione limitata dell’uomo. “Il corpo non sarà superato”, p. 29.

L’uomo infatti non può entrare in relazione con l’eterno: “l’umiltà vieta l’ascolto di ciò che viene dall’alto”, p. 25. Egli può solo attraversare il mondo: “tutto sta nel rimanere semplicemente legati al mondo”, pp. 64-65.

L’assoluto è un salto, un’interruzione, una sosta, ma non è separatezza, parte. Convivono l’attraversamento (“ginnastica nell’invisibile”, p. 65) e la caduta (“Alla fine cadere dolcemente senza sapere dove”, p. 68).

L’associazione di elementi apparentemente distanti è una corsa verso la totalità e la conferma di una assenza gerarchica tra le cose del mondo. La continuità tra queste non è mai consolatoria, non produce vicinanza, identità e non può essere governata, controllata: essa dilata, espande, ammette la contraddizione. Le corrispondenze, le trame, non sono però comprensibili, riducibili ai significati. Esse, al contempo, non negano la fine, il limite del vivente.

“Che strane connessioni. Io credo in una circolazione interna. E quando gli esseri umani distruggono questo mondo: la circolazione interna prosegue.”, p. 53.

Sentire tutto, accogliere tutto, si dà come pratica di intensità, significa bruciare (ricorre il termine Inbrunst, cioè “fervore”), amare, consumarsi, stancarsi: “sempre vissuto al limite estremo – esercitata a morire. Amare è esercitarsi a morire”, p. 59. Eppure, mentre ci si dedica all’ascesi e alla profondità, bisogna persino andare avanti, “proseguire e proseguire”, p. 63.

Andare avanti significa proprio venir meno, anche se nel mondo dei viventi questo movimento è fatto di sofferenze, cioè di “denti di tigre fatti di luce stellare, che ti stanno alla gola, sempre pronti a incidere”, p. 58. Il dolore rimane incomprensibile per l’uomo: “Solo ciò che muore si spinge così avanti, così vicino a cercare il paesaggio senza stelle. Ma noi vediamo una malattia”, p. 31.

Nonostante la nostalgia, bisogna avanzare perché “solo una volta che si è lasciato il paese cominciano gli incontri”, p. 35. Bisogna perciò uscire, lasciare uscire, “lacerare la pelle irreale”, p. 67. Lì si trova l’Altro, “nel suo spazio senza margini”, p. 48.

Tuttavia, il desiderio del ritorno è anche movimento verso l’interno: “Sono un essere regressivo. Ma forse lo siamo tutti. Tutti verso il centro.”, p. 49.

Allora, dov’è la vita esattamente? Nella perdita o nella sosta tra i legami, nei momenti di sospensione e coincidenza con il puro reale?

“Forse, per vivere, bisogna lasciarsi trattenere. Dalle religioni, dalle piccole energie, anche creative, da quelle post-creative dell’arte – o dal piacere di vivere.”, p. 35.

“A volte entro nella dispensa della cucina come se si trattasse di una zona di sosta. Riordino il bicchiere blu e i piatti che ho comprato in un grande magazzino per pochi soldi. Poi cucio dei fiocchi su un vecchio vestito. Pianto un fiore. E spesso chiacchieriamo cordialmente senza pensare alle nostre ferite.”, p. 64.

Nei confronti dei moti di disgregazione e di trasformazione, del movimento in avanti, dinnanzi al desiderio di salire e al peso delle cose del mondo che trascina verso il basso, cosa può l’arte? Cosa possono le parole?

L’arte ricerca la cosa in sé: “Se fossi un pittore dipingerei la pietrità, della pietra. La rosità della rosa”, p. 35. Per fare ciò, bisogna quindi provare a entrare nelle cose, a privarsi di sé: “La strada va sempre dall’esterno verso l’interno. Anche nell’arte. Alla fine senza corpo, solo forza, solo essenza. Mai rendere facile, mai giocare, mai le belle parole, piuttosto strapparle tutte, le parole”, p. 41.

Nel desiderio di compiutezza, di conclusione, di ritorno, di raggiungimento è però necessario per l’uomo attenersi alla propria reale misura: corporea, finita, terrena, protesa verso la distruzione, sola e posta accanto ad altre cose del mondo ugualmente sole, dentro un movimento più grande, ingovernabile:

“Sono una persona che fallisce. Io lascio andare tutto. E prego di essere lasciata andare. Io non dormo. I miei occhi sono spalancati, come quelli della lepre, sempre rivolti verso la fine. […] L’umiltà non può mirare a qualcosa di compiuto”, pp. 36-37.




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