Il libro di Anat Gov, insieme un'opera teatrale, un racconto, un'introduzione teologica, fa venire in mente due riferimenti: il primo relativo al film Train de vie, al monologo che il protagonista Shlomo pronuncia sul tema della presenza di Dio in rapporto con l'umano; il secondo al libretto di Aleksander Wat, Lucifero disoccupato. Nel primo il protagonista del film di Radu Mihaileanu, Shlomo appunto, arriva alla conclusione che l'uomo attraverso il testo sacro dà voce a Dio "solo per inventare se stesso", perché il problema non è chiedersi dell'esistenza di Dio ma "se l'uomo esiste". Nel libro di Wat, invece, si assiste ad una sorta di confessione di Lucifero, e poco ci manca che frequenti anche lui il divano di uno psicoanalista, perché la sua influenza sulle vicende umane è ormai da ritenersi completamente esaurita, avendo gli umani abbondantemente, ed oltre ogni rosea previsione, superato Satana in malvagità e scorrettezza. Aggiunge però sardonicamente Wat, (e facendo parlare un cardinale!), che il fatto è che ormai da molto tempo la Chiesa Cattolica e Lucifero in persona si sono alleati per contrastare la deriva materialistica della moderna società, e i risultati di questo braccio di ferro, impari per i due alleati per noi improbabili, sono sotto gli occhi di tutti. Tutti coloro che assistono al dispiegamento quotidiano della volontà di potenza dell'uomo.
Nel libro di Anat Gov Dio ha in animo di preparare una lezione tremenda a quella razza umana così poco riconoscente nei suoi confronti e chiede un consulto ad una psicologa. Quest'ultima via via "mette alle strette" , o tenta di mettere alle strette, la divinità facendogli ammettere che ciò che in realtà Egli non perdona all'uomo è l'irriconoscenza, la slealtà, l'inimicizia, e infine la vera e propria mancanza di amore dell'uomo nei Suoi confronti. In coerenza con la propria tradizione professionale Ella asserisce quanto non sia Dio, per di più privo di madre con cui prendersela, ad avere bisogno di una seduta psicologica " Perché oggi siamo noi a soffrire della malattia del potere. Siamo noi ad aver bisogno di una terapia, non lei. Lei non uccide più i bambini, adesso li uccidiamo noi. Non fa più piovere dall'alto semplicemente fuoco e zolfo, adesso lo facciamo noi, bombe atomiche che avrebbero raso al suolo Sodoma e Gomorra così in fretta che la moglie di Lot non avrebbe fatto in tempo a voltarsi! Quindi chi è tra noi che ha bisogno di una terapia?" ma l'uomo. Si arriva così al momento in cui Ella affronta con un titubante Dio il momento iniziale dal quale, asserisce la divinità, egli non si sia più "sentito lo stesso" ovvero dal tempo dell'incontro con Giobbe. E da qui si prende la rincorsa verso lo scioglimento finale del testo.
Senza svelare altro della trama basterà accennare che i capovolgimenti delle tesi sono repentini, taglienti, insomma la migliore tradizione yiddish, e si comprende quanto l'impianto generale dello scritto sia stato pensato per il teatro. Una chiave di lettura però che non può prescindere dal generale "tono" teologico di tutta l'operetta: se Dio è un essere che dice di avere perso i propri poteri da quando Giobbe, nonostante tutte le tragedie, Gli aveva rinnovato la propria fedeltà mostrando fino a dove il virtuoso umano possa spingersi, quel Dio che è l'alfa e l'omega, l'uno e il molteplice, può avere anche egli recitato la parte per soccorrere quella psicologa che ne aveva implorato l'aiuto, e l'ascoltare la supplica di un solo singolo essere umano e contemporaneamente essere in grado di ascoltare tutti gli altri, non è da sempre una delle facoltà che gli uomini attribuiscono a Dio?
Nunzio Pizzuto, docente di Liceo, Bergamo