Cosa c’è dietro le quinte della società israeliana?

Un uomo esce stanco dal lavoro. Fa il medico in ospedale. Dopo ore di veglia e adrenalina, alla fine del turno di notte, invece di tornare a casa decide di fare un giro in macchina. La strada è vuota, l’auto è nuova e nello stereo c’è la sua musica preferita. Quasi non si accorge di aver investito un uomo. È un nero, un migrante che camminava sul bordo buio della strada e ora giace in punto di morte. Invece di fermarsi a soccorrerlo, come farebbe con un qualsiasi paziente, Eitan Green scappa. Torna nella sua villetta suburbana dalla cucina immacolata, si fa una doccia cercando di non svegliare la famiglia e si sforza di dimenticare quello che ha fatto.

Si apre con un incipit fulminante Svegliare i leoni (Giuntina), il romanzo che consacra Ayelet Gundar-Goshen come la voce femminile più esplosiva della nuova generazione di autori israeliani. Quella che, da Assaf Gavron a Etgar Keret, da Eshkol Nevo a Sayed Kashua ha raccolto il testimone della triade dei mostri sacri: Oz, Yehoshua, Grossman. «Discendo da pionieri che arrivarono a inizio Novecento nella Palestina britannica e da ebrei scappati qui per salvarsi dalla Shoah» racconta la scrittrice che è psicologa, si è occupata di diritti civili e ha lavorato per il cinema e la tv. Dopo il debutto con Una notte soltanto, Markovitch, una sorta di Cent’anni di solitudine mediorientale, questa trentacinquenne esile, due bambini piccoli e una voce melodiosa da ragazzina, ha impresso una svolta alla sua carriera letteraria. Perché Svegliare i leoni è un thriller psicologico e insieme un formidabile rebus morale, capace di andare ben oltre Israele per chiamare in causa tutto l’Occidente. Tanto che il creatore della serie tv Homeland, Gideon Raff, sta lavorando a una versione, per il network statunitense Nbc, da ambientare al confine tra Messico e Stati Uniti.

Nel romanzo siamo invece a Beer Sheva, la città cresciuta dal nulla tra le sabbie del Negev, «diciamo pure il giardino sul retro della società israeliana, con gli accampamenti beduini, i kibbutz morenti, gli africani e le famiglie israeliane della working class». Nell’ultimo decennio, Beer Sheva è diventata l’avamposto dell’immigrazione africana verso Israele. Racconta l’autrice: «In questi anni si stima che tra le settantamila  e le centomila persone, fuggendo dall’Africa, abbiano attraversato il confine con l’Egitto e cercato rifugio in quello che per loro è il primo scampolo di Occidente, l’unico con cui c’è una frontiera via terra. Nel Sinai ci furono date le Tavole della Legge: la stessa strada che gli ebrei fecero per uscire dalla schiavitù d’Egitto oggi è percorsa dai migranti. Alcuni vengono rimpatriati, altri restano illegalmente. Per la maggior parte provengono dall’Eritrea e dal Sudan. Ma la politica del governo è di accogliere con lo status di rifugiato più o meno una persona ogni cento. Potremmo fare di più: c’è un sacco di spazio tra uno e cento, no?».

È qui, in questa zona liminale di Israele e della sua coscienza collettiva, che vive Eitan, il neurologo protagonista di Svegliare i leoni, con la moglie Liat, commissario di polizia, e due bambini. Un uomo retto, esiliato da un grande ospedale di Tel Aviv per non aver avallato una storia di mazzette, che in quella notte fatidica però perde la testa. E si ritrova a fare i conti con Sirkit, la moglie del giovane che ha incidentalmente ucciso, una lavapiatti eritrea che lo obbligherà a cambiare il ritmo delle sue giornate, a riscrivere il codice della sua professione e a guardare negli occhi l’Altro, scoprendo l’immagine poco lusinghiera di se stesso che gli rimanda. «Questa storia mi segue come uno spettro da molti anni. Durante una vacanza in India incontrai in un motel un turista che si era comportato come Eitan: aveva investito un indiano e non si era fermato a soccorrerlo. Avrebbe fatto lo stesso con un bianco come lui? La domanda mi inquietava ma non riuscivo a tradurla in una trama. Finché non ho intuito che potevo ambientare la storia qui, con la crisi dei profughi che coinvolge Israele, l’Europa e gli Usa» spiega Aylet, come se la scelta accurata delle parole allontanasse il rischio degli accomodamenti, delle ipocrisie con cui nella quotidianità affrontiamo la questione.

«Inizialmente avevo scritto tutto dal punto di vista di Eitan, come se non mi sentissi in diritto di parlare al posto di Sirkit. Poi ho capito che la vera sfida stava lì: mi serviva il suo sguardo da outsider, mi servivano i suoi occhi di rifugiata. Una di quelle persone che sono testimoni di tutto ciò che facciamo – nelle nostre case mentre le puliscono, nei ristoranti in cui ci sparecchiano i tavoli – e alle quali non prestiamo alcuna attenzione. Cosa succede se qualcuno di questi invisibili vede o sa qualcosa che cambia i rapporti di forza? Scrivendo ho elaborato la mia versione di ciò che chiamiamo scontro di civiltà: tra coloro che sono al fondo della catena alimentare e noi, che bene o male siamo in cima. Tra il nostro avere e il loro non avere. Tra il nostro Stato ben nutrito e forte e coloro che non vuole riconoscere». Pur affrontando la questione più calda della contemporaneità, ci tiene a precisare che il suo romanzo «non è una dichiarazione politica». Ha una dimensione intima e una sorta di eco biblica, solo in parte inconscia.

Se le si fa notare che quell’omicidio nel deserto, senza testimoni se non Dio, ricorda Caino che uccide Abele, risponde: «Non ci avevo pensato. Del resto, quell’uccisione non è forse la matrice letteraria di ogni omicidio? Quando Eitan apre gli occhi la mattina dopo l’incidente si stupisce che la terra non si spalanchi sotto di lui per inghiottirlo». Ma la terra non si spalanca e la sua vita va avanti. Lo porta all’incontro con la vedova dell’uomo che ha ucciso. «Ci tenevo a non descrivere Sikrit come una specie di Madonna africana, ma come una persona che ha dei sogni e delle ambizioni. Aspira ad avere un potere, su Eitan e sulla sua vita. Ritrarla senza difetti sarebbe stato altrettanto disumanizzante che farne un essere diabolico. Un rifugiato non è un santo quanto non lo è un uomo della classe media. Entrambe sono etichette: dietro ci sono persone che odiano, amano e ingannano».

La natura dei nostri codici morali, la loro consistenza è il leitmotiv dell’intera narrazione, come una specie di nota bassa che emerge dall’intreccio, e pagina dopo pagina il protagonista è posto di fronte al ricatto, alla menzogna, poi al desiderio per una donna che non è sua moglie. «Svegliare i leoni parla anche di questo: dei segreti e del non detto su cui si regge l’amore coniugale e la vita di una famiglia. Dopo l’incidente, Eitan non racconta nulla a Liat. E lei, un funzionario di polizia che per mestiere scava nel cuore delle persone, finge di non accorgersi che l’uomo che ha sposato le mente ogni notte». All’altro capo del telefono, in casa di Ayelet, la figlia irrompe nella stanza e lei chiede al compagno di intrattenerla mentre conclude: «C’è un nocciolo segreto nelle persone che amiamo. E spesso facciamo di tutto per non conoscerlo. Chi vuol sapere davvero che si sta addormentando accanto a un vigliacco?».




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