I nostri cani ci insegnano a morire

Da amante di cani e di bambini, nel corso degli anni mi è capitato di leggere sul rapporto che ci lega al cane, definito con il melenso e retorico appellativo di “migliore amico dell’uomo”. Avvertenza: se qualcuno inorridisce al parallelo cani-bambini non prosegua nella lettura poiché chi scrive ha sempre considerato sul medesimo piano affettivo i figli pelosi e no.
​Mi sono così imbattuto in banali pagine strappalacrime. Spesso. Non sempre però. I cataloghi delle case editrici traboccano da sempre di titoli “cinofili”. Tra i (non moltissimi per la verità) libri letti ricordo con felicità un crudo e toccante Romain Kacew, noto ai più come Roman Gary, che nel suo ciclo americano raccontò nel commovente Cane bianco il razzismo statunitense fine anni Sessanta. E ovviamente le splendide pagine di Jack London. O penso a Cane e padrone di Thomas Mann, a Flush, la biografia di un cane di Virginia Woolf. Mi affiora alla memoria un dolcemente atroce passaggio del bel Peccati d’estate dell’israeliana Anat Einhar quando si domanda che cosa possa significare un cane fatto a pezzi in un attentato… «“Dì grazie”, gli aveva detto Iris alcuni giorni dopo che Guli era morto. “Dì un grande grazie, perché ci sono quelli che hanno perso genitori e fratelli, non cani o gatti. Immaginati se fosse successa una cosa terribile a me, mettiamo, che io fossi morta o che avessi perso una mano o una gamba!”. Tzvi le aveva spiegato che doveva uscire un po’ fuori, tutti quegli anni era uscito a fare una passeggiata con Guli almeno tre volte al giorno, e le abitudini non svaniscono, doveva respirare un po’ d’aria altrimenti…».
​Ora non ho un cane.

Perché ripensarci, scriverne e farsi acchiappare dalla malinconia allora? Perché Giuntina ha appena editato un libretto del grandissimo Yoram Kaniuk, superbo ponte letterario tra il “vecchio ebreo” e “l’ebreo nuovo”: Pierre. In ricordo del mio amato cane (postfazione di Paolo De Benedetti). Una scrittura quasi da bambino – un bambino sensibilissimo che ha attraversato la vita con le sue felicità e i suoi orrori –, frasi e concetti che agli stolti e ai superficiali potrebbero apparire insignificanti; un tramite straordinario, un transfert potente tra Yoram e Pierre, e Pierre e Yoram. Forse anche perché, come svela il compianto De Benedetti, Pierre è il testimone della volontà divina di rivelarci la morte. Kaniuk: «E ancora oggi, ogni mattina, mentre faccio colazione, guardo dalla finestra e vedo il punto dove è sepolto e penso che se c’è un paradiso la maggior parte degli uomini non ci arriveranno, ma tanti cani sì. Pierre siederà con il suo muso appoggiato al bracciolo della poltrona e sorriderà il suo dolce sorriso, e gli angeli, se esistono, piangeranno così tanto finché non scenderà un diluvio sulla terra e Pierre guarderà l’acqua cadere giù e mi vedrà e mi perdonerà per averlo picchiato quella unica maledetta volta. È così. Il povero Pierre non c’è più e non tornerà. Se queste parole che scrivo potessero essere abbaiate nel modo giusto, lui le sentirebbe e capirebbe quanto l’ho amato».

Sdolcinature? Pane per i benaltristi del sentimento? Io non credo. D’altronde conforta quanto Sigmund Freud diceva in una lettera a Marie Bonaparte, sua paziente e allieva e cofondatrice della prima società psicoanalitica francese, la Società psicoanalitica di Parigi. Era stata Marie a regalargli il chow chow che Freud chiamò Jofi (bene, va bene, in ebraico) e che fu per anni e anni ottimo supporto nella gestione dei propri pazienti. Scrisse Freud: «Le ragioni per cui si può in effetti voler bene con tanta singolare intensità a un animale come Jofi sono la simpatia aliena da qualsiasi ambivalenza, il senso di una vita semplice e libera dai conflitti difficilmente sopportabili con la civiltà, la bellezza di una esistenza in sé compiuta. E, nonostante la diversità dello sviluppo organico, il sentimento di intima parentela, di una incontestabile affinità».

 




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