La mia Israele declinata in versi

“La poesia ebraica – ha scritto Ariel Hirschfeld, professore di letteratura all’Università Ebraica di Gerusalemme – fino alla fondazione dello Stato, fu il mezzo primario nella formazione del nuovo ebreo. Fu una rivoluzione culturale di cui è difficile esagerare l’importanza per il popolo ebraico. La poesia fu il mezzo attraverso il quale avvenne “l’educazione sentimentale” dell’uomo e di tutta la cultura ebraica, poiché fu il luogo in cui furono formulate, talora realmente per la prima volta, delle emozioni in lingua ebraica”.
Che ciò non sia valido solo per un passato, peraltro non così lontano, lo dimostra il ruolo rivestito dalla poesia nella società israeliana contemporanea. È in questo contesto che vanno collocati la produzione e il successo di Agi Mishol nonché, più in generale, l’uso del linguaggio poetico da parte delle nuove generazioni per costruire la propria identità, israeliana ed ebraica al contempo. Infatti per quanto differenti possano essere le vicende biografiche degli autori e distanti le referenze culturali, ogni poeta israeliano non potrà non affrontare il rapporto con le fonti della tradizione venendo a decidere come utilizzarle, se lasciarle sopire o, invece, farle emergere, non fosse che solo per tratti e allusioni, tra una riga e l’altra. Il lavoro poetico sulla lingua si profila così come lavoro sulla propria identità rinnovando, verso dopo verso, la sfida del sionismo da una parte e di un’identità millenaria dall’altra, collettiva tanto quanto intima. Fronte a questa continuità sono però diversi gli interrogativi che sorgono con il mutare della società israeliana Anzitutto vi è la domanda circa il rapporto tra i poeti e la collettività nel suo complesso. Se il ruolo rivestito dalla poesia è dunque indiscusso, è altresì vero che il lavoro poetico si è fatto nei decenni sempre più soggettivo, meno legato alle grandi tematiche sociali. Inoltre, alla luce di quanto dichiarato dal Presidente d’Israele Rivlin in occasione del suo discorso a Herzelia lo scorso giugno 2015, ove ricordò la crescente frammentazione della società tra laici, religiosi, haredim e arabi, possiamo domandarci, dove si colloca la poesia in tale contesto? Nel caso di Mishol il gruppo di riferimento è chiaramente il primo: se tra i suoi versi riemerge il Tanakh, ciò non di meno, come apprendiamo da un suo testo, Lifnot erev (Verso sera), la sua libreria – in senso letterale e metaforico – è affollata dai libri di Yourcenar, Rilke, Kavafis, di cultura occidentale, insomma. È lo stesso per un poeta haredi? E dove si collocano i giovani mizrahim che rivendicano una loro visibilità proprio attraverso la poesia? Abbiamo rivolto alcune domande ad Agi Mishol allo scopo di comprendere come, anche con la sua produzione, le sue scelte stilistiche e tematiche, si rinnovi quell’“educazione sentimentale” di cui parlava Hirschfeld in riferimento alla costruzione di un’interiorità in ebraico che il sionismo ha reso possibile superando l’uso della lingua limitato o al settore esclusivamente rituale o, nei periodi più floridi della produzione culturale diasporica, all’ambito della cultura d’élite. Ruolo della costruzione di sé svolto dalla letteratura che nel caso di quella ebraica, per le note vicende storiche, emerge in tutta la sua pregnanza. L’ebraico calato nel registro poetico di Mishol, sempre attenta a restare vicino alla lingua della quotidianità, diviene allora una particolare angolatura da cui scorgere la gamma dei sentimenti e dei vissuti umani sottesi anche in quelle poesie più esplicitamente inerenti all’attualità israeliana o all’esperienza della “seconda generazione”.
Abbiamo intervistato Agi Mishol di ritorno da un viaggio a Hong Kong dove era invitata a rappresentare Israele in un incontro internazionale dal titolo “Poesia e conflitto”.

Prima di tutto siamo molto curiosi di sapere come è andata questa esperienza.

Ero ospite di Bei Dao, che di fatto ha rivoluzionato l’intera poetica cinese, si può dire che è il primo modernista. Celebrato dagli attivisti di piazza Tien An Men, ha subito dieci anni di esilio. Ora vive a Hong Kong ed è professore alla Chinese University. Ci sono state letture di poesie e dibattiti, e infine una visita in Cina, nella città di Chengdu, dove centinaia di persone si erano riunite ad accoglierlo; non avevo mai visto niente del genere, una popolarità degna di una rockstar. I giovani si commuovono, piangono, lo seguono per le strade, è stato emozionante vedere tanto onore tributato alla poesia. Dall’altro lato non è stato facile spiegare Israele, ci sono cinesi che non ne hanno mai sentito parlare, oppure non colgono quelle sfumature che noi ben conosciamo dall’interno. Per loro tutto è bianco o nero, Israele è il conquistatore, quello forte, e i palestinesi sono le vittime per cui è doveroso parteggiare. Posso capirlo, e tutt’a un tratto è stato difficile essere un simbolo di uno Stato occupante e di un governo con il quale non sono particolarmente d’accordo. Sono tendenzialmente di sinistra, ma allo stesso tempo non mi sento di portare all’esterno le medesime critiche che rivolgo quando sono a casa, sarebbe un autoboicottaggio, un suicidio. Ho dovuto come sincronizzare le mie voci, cercare di trasmettere la complessità. C’erano anche due poeti palestinesi, uno dei quali, un giovane autore, non ha voluto sedere insieme a me nella stessa sessione, un vero peccato, perché avremmo potuto iniziare una discussione, un confronto.

E l’altro?

È anche una questione di età, quello più anziano era più moderato, abbiamo parlato, fumato, riso, mangiato insieme. Quello giovane – si può essere poeti giovani solo una volta nella vita – ha un blog, e probabilmente ha pensato che se si fosse fatto vedere insieme a me, avrebbe trasmesso un’idea di normalizzazione, così non mi ha rivolto la parola, e nemmeno io a lui. Purtroppo, perché la poesia è proprio qualcosa che non ha confini, è fatta per travalicarli. C’è posto per l’altro, per l’empatia nei suoi confronti.

In Italia il ruolo della poesia è limitato, in Cina, a quanto pare, i poeti sono eroi acclamati per le strade, e in Israele?

Anche in Israele è molto forte; la “scena” poetica è vivacissima. A primi di dicembre si sono tenuti due festival a Tel Aviv, uno della Helicon, la scuola di poesia che dirigo, e uno, esattamente nella stessa data, “contro” il primo. C’è ora una nuova corrente che si chiama Ars poetica, “ars” scritto con ayin (nello slang termine spregiativo per delinquente di mezza tacca, con una connotazione etnica N.d.A); è la poesia dei giovani mizrahim che contestano gli ashkenaziti. A volte mi pare un fenomeno più sociologico che poetico, ma bisogna vedere come si svilupperà in seguito. Il dibattito è comunque intenso. Da un lato ritengo che faccia bene alla poesia, dall’altro a volte i toni sono aggressivi.

Tutti notano il fatto che il suo linguaggio è semplice, quotidiano, un inno all’ebraico parlato. Si riconosce in questa descrizione? C’è anche posto per un riferimento alle fonti?

Nella mia poetica chiarezza e comprensibilità sono un valore molto importante, perché la poesia è comunicazione, dialogo. Allo stesso tempo però la lingua che uso è leggibile secondo più livelli interpretativi, come nella tradizione ebraica del pardes. Al livello del significato letterale è semplice, simile a quella parlata, ma se si guarda al di sotto della superficie, ci sono anche remez, drash e sod. Come nella cassa armonica di una chitarra, è possibile sentire risuonare tutti gli strati della lingua, fino alla Mishnah e al Tanakh. Ogni parola porta con sé un’intera famiglia di associazioni. Ci si può fermare al livello letterale, ma chi è in grado può ascoltare l’eco di significati lontani. Una delle cose che amo di più è incrociare diversi registri che si parlano in una composizione sorprendente. Per esempio giocare con l’alternanza di biblico e slang. Perché l’argomento fondamentale della poesia, di qualunque cosa essa tratti, è la lingua stessa.

Lingua parlata e Tanakh riportano al sionismo delle origini. Ritiene che la sua poesia sia una sorta di continuazione di quelle istanze?

Il sionismo è un movimento, e come ogni movimento nasce, dura per un certo tempo e infine cede il posto ad altri movimenti. La lingua invece è un organismo vivente. La rinascita dell’ebraico è una grandissima realizzazione del sionismo, ma allo stesso tempo l’ebraico ci porta continuamente in luoghi nuovi, è qualcosa di vivo, in perenne divenire. I poeti hanno antenne particolarmente sensibili per tutto questo. Di ogni parola nuova mi chiedo come suonerebbe all’interno di una poesia.

Sente che la sua lingua fa parte di un’unica koinè europea? Ci sono scrittori come Yehoshua, facilmente traducibili, e altri come Agnon, che per il loro legame così stretto con le fonti ebraiche perdono molto in traduzione.

Agnon è sicuramente uno scrittore “ebreo” [yehudì], e poi ci sono scrittori come S. Yizhar, la cui lingua, con tutti i verbi che inventa, è un vero e proprio concerto dell’ebraico, è lo scrittore più ebraico [ivrì] che mi venga in mente. Entrambi, nella loro diversità, molto difficili da tradurre. Io sento un legame forte con la poesia europea e anche americana. Quando è uscito un mio libro in America ho trovato molto facile creare un legame con il pubblico; il mio pensiero è più universale, ma allo stesso tempo l’ebraico mi è tanto caro da sentirlo come la mia patria. Nonostante la situazione difficile che c’è adesso in Israele, non potrei abitare in nessun altro paese, non posso vivere fuori dall’ebraico.

La ricchezza della produzione culturale israeliana ha promosso un rinnovamento dell’identità ebraica. Oggi l’ebraismo diasporico, a prescindere dalle posizioni politiche, tende a identificarsi con Israele. Sono molti, però, nell’Israele più laica, a prendere le distanze da alcuni aspetti dell’ebraismo. Lei come si colloca in questa dialettica?

Innanzi tutto io mi sento ebrea, ma secondo la mia personale definizione. Mio nonno era rabbino in Ungheria, i miei genitori sono sopravvissuti alla Shoah e sono diventati completamente laici, e anche io sono un’ebrea laica. Quello che succede adesso in Israele è che le correnti dei haredim diventano sempre più forti, recentemente è stato creato un premio letterario specificamente dedicato a tematiche religiose. Un premio per il quale né io né i miei amici ci presenteremo come candidati. La situazione è tale, per quanto sia molto doloroso dirlo, che si finisce per buttare via il bambino con l’acqua sporca, e io mi trovo a essere contraria a quasi tutto ciò che è legato alla religione. Non sopporto le imposizioni, che chiudano i cinema di sabato – per esempio – o che mi tirino pietre se viaggio di sabato; sono cose che mi creano molti problemi con l’ebraismo, o meglio, con gli ebrei che credono che la loro interpretazione dell’ebraismo sia l’unica valida. Il fatto che ciò si rifletta anche nella politiche del governo è per me un problema molto grave.

Fronte a queste difficoltà, cosa significa per lei rappresentare Israele all’estero?

Recentemente Amos Oz ha annunciato in Europa che non parteciperà a eventi legati al Ministero degli Esteri, verrà solo se invitato a titolo personale, perché non se la sente di rappresentare il governo. Io non ho compiuto un atto così estremo, ma ovunque vada dichiaro che rappresento solo me stessa, o una parte specifica del paese, quella che noi chiamiamo Medinat Tel Aviv.

Passando a un altro argomento, i critici letterari usano spesso l’espressione “seconda generazione” per parlare di autori figli di sopravvissuti alla Shoah. Spesso gli autori non amano tali etichette usate per mettere un po’ d’ordine nella letteratura, lei che cosa ne pensa?

Mi sento pienamente “seconda generazione”. Questa estate sono stata a Gorizia, dove c’è una sinagoga bellissima, ormai in disuso, e mi sono molto commossa di esservi stata invitata proprio in qualità di seconda generazione, come rappresentante di un Jewish spirit un tempo presente in molte parti d’Europa e ora scomparso. In una poesia ho scritto questa frase: «sono nata da una fossetta della morte», anche dalla morte può uscire una vita, e io non lo dimentico mai. Mia madre è stata ad Auschwitz e mio padre nei campi di lavoro, avevo anche una sorella che è salita al cielo in fumo. Sono stata la prima bambina nata dopo la Shoah a Cehu Silvaniei, la piccola città della Transilvania da cui provengo. Non dimentico mai tutto questo. In una poesia su mia madre ho scritto «la tua lingua madre non è la mia lingua madre», perché la sua era l’ungherese, mentre la mia è l’ebraico. Mia madre non parlava ebraico, e, come molti sopravvissuti, era una donna molto silenziosa, in un certo senso la poesia è diventata mia madre, la mia poesia parla anche per lei.

Come accennava prima, lei è direttrice di una scuola di poesia. Che cosa significa educare all’uso della lingua poetica?

Una cosa è certa: è impossibile insegnare a qualcuno ad essere un poeta se non lo è già. E’ come far nascere un bambino, si può aiutarlo a uscire, ma il bambino deve esserci da prima. Si può insegnare la lingua della poesia, la sua cassetta degli attrezzi. È diverso dall’insegnarla all’università, nella nostra scuola si fanno molti esercizi, si impara attraverso l’esperienza personale, si mette in pratica, si condivide. Si tratta di sviluppare sensibilità, di capire che cos’è la poesia, che di fatto è una lingua dentro la lingua. Teniamo seminari per principianti assoluti, altri per studenti di livello più avanzato, che magari hanno già pubblicato un libro, ci sono seminari comuni a poeti e musicisti, autori ebrei e arabi, laboratori di traduzione, perché la traduzione è sviluppare continuamente il muscolo delle parole, è un modo eccellente per insegnare le sfumature di significato, per insegnare ad ascoltare. L’immaginazione però non si può trasmettere. Tuttavia c’è un’incredibile richiesta, sono moltissime le persone che vogliono scrivere. A volte si ingannano, pensano che provare un’emozione o avere un’idea sia già poesia… non è così che funziona! E non è nemmeno un gioco, ci sono dei rischi: si partecipa a un laboratorio e facendo un esercizio si scrive una buona poesia. Bene, è come una droga, poi non si desidera altro che replicare quell’esperienza, e se non ci si riesce si può restare prigionieri in un limbo di “quasi” e di “forse” che magari dura anni. Infatti la prima cosa che dico ai nuovi arrivati è: “Scappate finché siete in tempo!” .




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