Annarita Celentano scrive su Mangialibri
di Himmo Re di Gerusalemme di Yoram Kaniuk
Nel 1948, in piena guerra arabo-israeliana, Hamotal Horowitz arriva a Gerusalemme: la città è sotto assedio, ma lei sembra quasi non accorgersene. Avverte la paura, quella sì: sente tutto il mutismo delle cose e, insieme, le pare di conoscere già la strada per il convento di San Gerolamo, “come se ci fosse già stata”. Un immenso albero, “le cui fronde oscurano il cielo”, la accoglie nel cortile della struttura. Ogni cosa è abbandonata a sé stessa e nell’aria aleggia un fetore di spazzatura. Un gatto pelle e ossa – ormai del tutto privo della “fierezza della razza” – le si accosta; lei, allora, gli porge del pane. Il vecchio guardiano del convento, indovinando subito che lei sia la nuova infermiera, le si avvicina: non le chiede nemmeno il nome, la esorta soltanto, molto bruscamente, a salire. Hamotal, nel suo nuovo lavoro, sperimenterà ben presto che la paura, quella concreta che nasce dal tocco costante della morte, spinge le persone al contatto d’un corpo vero – vivo –, uno qualsiasi, purché vivo. La sua educata e fredda gentilezza, che sa un po’ anche di sussiego, la sua passione, quella sua dolcezza resa matura dalla guerra e dalla stessa morte del suo promesso sposo, fanno sì che la giovane donna venga pian piano ben vista dai feriti, nonostante – o soprattutto per – la sua predilezione per Himmo, un “pupazzo” d’uomo senza più occhi, né braccia, né gambe… ma con delle labbra bellissime che chiedono, implorano d’essere sparato…
Il tempo della guerra è un altro tempo, interiore – misurato dai “rintocchi misteriosi del cuore” – e sospeso: è un limbo che sa di non poter pensare al futuro, alla salute dopo la malattia. È un tempo spezzato. È in questa paralisi cronologia che Yoram Kaniuk fa scorrere, limpidi, i grandi interrogativi dell’esistenza: il senso del dolore e della sofferenza, del respiro della vita che continua anche solo con un briciolo di fiato. Nello straniamento della guerra, i corpi feriti e spezzati dalle bombe sono quelli normali e i corpi sani – dei medici, delle infermiere e di Suor Clara: l’unica suora rimasta nel convento, l’unico barlume di fede – sono atipici. Saltano gli schemi insieme ai corpi, innescando una dualità che accompagna tutto il romanzo: feriti e sani, morte e vita, scienza e fede, uomo e non uomo, corpo e anima… ed è in questo disordine assoluto che Hamotal mette ordine anche in sé stessa e nella sua vita: si interroga e impara a scegliere; sceglie di stare davvero dalla parte di Himmo… Kaniuk racconta il Caos con ferma lucidità, con metafore nitide s’avvicina al mistero della Vita. Con un linguaggio piano, accompagna il lettore lungo la salita, senza farlo affannare mai: gli svela i sentimenti, sublimi o luridi, dell’uomo – quelli dei protagonisti – con delicatezza, portandolo per mano a porsi le domande più difficili, ma senza fargli corrugare mai troppo la fronte, come nel disegno d’un bambino nelle cui forme all’apparenza incomprensibili è racchiusa la più pura verità. Kaniuk – partendo dagli inferi e sporcandosi ben bene le mani con le bassezze umane – ci insegna l’empatia dell’amore, come espressione più alta dell’Uomo. Un po’ ci eleva e un po’ ci adagia – delicato e saggio – in terra: nel romanzo, come nella vita.