INTRO://Scrivere poesie dopo Auschwitz (di Piero Stefani)


«È successo». Le due parole evocano un fatto accaduto, un avvenimento che non si propone come esito voluto di una scelta personale. Nessuno sigilla con queste parole le conseguenze desiderate di una propria azione o il frutto benaccetto del proprio operare. Il nudo accostamento di questi due termini evoca la parzialità del controllo umano su quanto sostanzia la nostra vita. Qualcosa è capitato senza che noi lo volessimo. Sono accaduti dei fatti che solo in minima parte dipendono da noi, eppure essi, spesso, ci mutano. Quel che è avvenuto ci cambia consegnandoci a un «dopo» diverso dal «prima».

«È successo». Nella sfera del possibile le componenti negative fanno aggio su quelle positive; perciò, di fronte alla frase che attesta un puro accadere, il primo pensiero si indirizza verso il lato oscuro: subito si ipotizza l’esistenza di una disgrazia, di una lacerazione o di un baratro. Solo di rado il pensiero si rivolge alla possibilità che ci sia stato un barlume di felicità legato, il più delle volte, a un incontro: nell’esistenza umana non è consueto che un accadere imprevisto risponda ai desideri inespressi racchiusi nel nostro cuore.

Secondo gli schemi propri del ragionare filosofico, allorché ci si misura con quanto è avvenuto ci si trova di fronte a una realtà conoscibile solo a posteriori. Qui l’esperienza è tutto. Gli eventi storici o i fatti dell’esistenza precedono la nostra capacità di prevederli in anticipo e di ricondurli, preventivamente, entro schemi consolidati. Nessuno sa davvero a priori come reagirà se succede quel che potrebbe capitare. Un incontro può cambiare una vita; una disgrazia stravolgere per sempre un’esistenza: nell’uno e nell’altro caso i conti si fanno solo dopo. Nessuno è preparato ad affrontare quanto a un tempo è sia imprevisto sia possibile. In quelle circostanze, la modalità di reagire è posta all’incrocio tra la prova dei fatti e la saldezza o la debolezza degli animi.

Le quattro parole che suggellano questo libro sono semplicemente: «ciò che è stato». Esse indicano la maniera in cui Paul Celan chiamava l’evento che altri definiscono Shoah, Auschwitz, Olocausto, «soluzione finale» o genocidio. L’intensità della qualifica dipende dall’impiegare in modo selettivo quanto vi è di più generico: tutto quel che è avvenuto è stato. Il salto qualitativo sta nel non scegliere un termine specifico per indicare l’evento che, pur essendo unico, condivide con tutto il resto il fatto di essere accaduto. L’adozione di un lessico puramente descrittivo si muta, quindi, in un giudizio di valore più intenso di ogni qualifica carica di deprecazione. Nella sua nudità, «ciò che è stato» segna un discrimine tra un «prima» e un «dopo».

Chi si trova ad abitare nel tempo del «dopo» è sfidato per tutta la sequela dei suoi giorni. Lo è perché non si tratta semplicemente di un «dopo» storico. Quest’ultimo ha luogo sempre e comunque: tutti coloro che aprono gli occhi al mondo hanno alle loro spalle un lunghissimo «prima». Altro è il discorso quando l’accadimento storico lacera le carni di un’esistenza. Allora la dimensione collettiva, lungi dallo scomparire, si coniuga con un vissuto che anela a esprimersi. Il bisogno di raccontare ha questa cellula generativa: arginare l’ineluttabilità di quanto è stato dando corso al desiderio di comunicare qualcosa non inscritto nel puro accadere. La parola tenta di replicare ai fatti. Il linguaggio può non essere all’altezza del compito; ci possono essere silenzi o mutismo, ma in ogni caso non c’è più solo uno spoglio accadere. Lo scacco non è fino in fondo esorcizzato. Tutto può restare chiuso, attorcigliato, inespresso. La comunicazione non di rado abortisce. Malgrado ciò dovrebbe comunque essere precluso sancire a priori la radicale insensatezza di ogni linguaggio del «dopo».

Theodor W. Adorno, quando non aveva letto ancora un solo verso di Paul Celan, scrisse una sentenza destinata a fare epoca: «La critica della cultura si trova dinnanzi all’ultimo stadio di cultura e barbarie. Scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro e ciò avvelena anche la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie». Quando una frase articolata e complessa contiene al proprio interno un’impennata, è facile che, assunta in maniera semplificata, si trasformi, suo malgrado, in una formula. Così è capitato alle righe adorniane, accolte e vulgate come semplice dichiarazione dell’impossibilità di scrivere poesia dopo la Shoah. Né si va lontano dal vero ipotizzando che grande fu il loro influsso sulla propensione a scandire un «prima» e un «dopo» recepito, a più riprese, anche in ambito filosofico-teologico (cfr. per es. Hans Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz). Il «dopo» diventò per molti uno spartiacque coniugato in modo troppo drastico e perciò facile; o meglio, affermare l’impossibilità della poesia divenne un modo per dire retoricamente l’orrore da parte di chi ben si guardava dal ricercare un linguaggio teso a comunicare quanto era posto al di là della comunicazione consueta. In molti dei suoi usi l’asserita impossibilità di fare poesia dopo Auschwitz si mutò, dunque, in una maniera per placare la tensione in luogo di acuirla.

In un appunto trovato tra le carte di Celan si legge: «Nessuna poesia dopo Auschwitz (Adorno): qual è la concezione della poesia posta sotto accusa? La presunzione di chi ha il coraggio, ipoteticamente-speculativamente, di considerare o raccontare Auschwitz dalla prospettiva dell’usignolo oppure del tordo». Tra la frase del filosofo e quella del poeta si collocano lo scambio epistolare e i fuggevoli e soprattutto mancati incontri tra Celan e Adorno ripercorsi da Paola Gnani con empatica acribia. In effetti, solo la convinzione stando alla quale la precisione è una forma di rispetto accompagnata dalla volontà di celare il proprio io nell’oggettività della scrittura ha consentito a Gnani di redigere pagine di raro e pensoso coinvolgimento per l’autrice e per il suo lettore.

L’involucro che contiene lo scambio e il «mancato incontro» è scandito dalle caratteristiche sociologiche più tipiche della vita degli intellettuali: conferenze, inviti accademici, premi letterari, querelle, vacanze in località evocative. Tutto sembra continuare come prima. Tuttavia sarebbe un errore ritenere che il fragile contenitore svilisca il proprio contenuto.

Adorno, come testimoniano con efficacia le pagine di Gnani, subì un influsso profondo da quel rapsodico incontro: le sue pagine finali sulla poesia dopo Auschwitz differiscono non poco da quelle iniziali. Il confronto con il filosofo da parte di Celan fu di una serietà assoluta, decisiva e disperata. La sua poesia non è quella dell’usignolo: è quella della pietra, della stella, della neve. È la voce degli esseri inanimati o di quelli muti propostici dall’implacabile rigore botanico del poeta. Il suo linguaggio è – secondo la definizione di George Steiner – un «metatedesco» attraverso il quale la lingua materna (mai aggettivo fu più appropriato) si pone di fronte a quella degli assassini. La poesia per Celan fu ricerca di comunicazione e di sincerità nell’incontro. Così scrisse in una lettera a Hans Bender: «Mi permetta di sintetizzare il mio pensiero e la mia esperienza – l’artigianato, come la pulizia, del resto, è il presupposto d’ogni opera poetica. Questo artigianato […] è questione di mani. E quelle mani, a loro volta, appartengono soltanto a un uomo, ossia ad un’unica creatura mortale che, con la sua voce e il suo silenzio, cerca una via. Solo mani vere scrivono poesie vere. Non vedo nessuna differenza di principio tra una stretta di mano e una poesia».

Molti sono i modi in cui tentare di dire il dramma di Celan; uno tra essi è prendere atto che la stretta di mano, che voleva essere calda e sincera, si è trasformata (secondo un’immagine più volte riproposta nelle pagine che seguiranno) in un messaggio in bottiglia. L’atto del marinaio di chiudere le sue righe in un involucro vitreo e di consegnarle alle onde è simbolo di un bisogno di comunicazione che sa di non poter contare su volti. Non per questo esso rinuncia alla possibilità che occhi lontani leggano quanto la sua mano ha vergato. Quando getta in acqua la bottiglia, il marinaio non sa se ciò accadrà e, con ogni probabilità, non lo saprà mai. Anche se il foglio sarà scorto non avrà mai luogo una stretta di mano.

L’immagine del marinaio non dice tutto. In effetti il messaggio fu letto. Tuttavia troppe volte non si dette credito alla sincerità della mano che lo scrisse. A volte la parola della pietra, della stella, della neve, del fiore fu scambiata, volgarmente, per quella dell’usignolo. Altre volte fu, in maniera pretestuosa, assunta come un plagio. Alla poesia celaniana non fu dato credito di realizzare il detto stando al quale «la realtà non è, la realtà va cercata e conquistata» (Paul Celan). L’esasperata quanto sincera convinzione di Celan stando alla quale il fraintendimento della sua poesia costituiva una prova del ritorno del nazismo trova in questi riferimenti la propria plausibilità. Lì per lui si coagulava la parola paradigmatica della testimonianza: «è successo, potrebbe succedere di nuovo». Come scrisse lui stesso: «nessuno testimonia per il testimone».

Vi un fu un testimone che divenne scrittore. Egli fu molto sensibile alla voce di un marinaio che «a ora incerta» era preso dalle ombre del passato e che, per non esserne del tutto sopraffatto, doveva raccontare quanto era successo. Coleridge e il suo Ancient Mariner divennero, così, cifra di un’intera opera letteraria. Quello scrittore, che pure dichiarò di aver innestato in se stesso Todesfuge, non colse il messaggio in bottiglia lanciato da Celan nel cupo mare del «dopo Auschwitz». Anzi, egli scrisse parole molto dure che, in chiusura, lasciano persino trasparire una specie di sollievo nel constatare una supposta presa di distanza tra Celan e la più famosa delle sue poesie: «Scrivere poesia per tutti sfiora l’utopia, ma provo diffidenza per chi è poeta per pochi, o solo per se stesso. Scrivere è un trasmettere: che dire se il messaggio è cifrato e nessuno conosce la chiave? Si può rispondere che trasmettere quel messaggio, e in quel modo specifico, era necessario per l’autore anche se inutile per il resto del mondo.

«Penso che sia questo il caso di Paul Celan, poeta ebreo tedesco, sulle cui spalle si è accumulato peso su peso, dolore su dolore, fino al suo suicidio a cinquant’anni nel 1970. Sono riuscito a penetrare il senso di poche delle sue liriche: fa eccezione […] Fuga di morte. Leggo che Celan l’ha ripudiata, non la considerava la sua poesia più tipica; non m’importa, la porto in me come innesto».

Al termine della lettura della pagine di Paola Gnani ci si rende conto che il grande scrittore e testimone qui si sbagliò e si tira un sospiro di sollievo sapendo che a Celan fu risparmiato di leggere questo giudizio scritto da chi aveva Auschwitz dentro di sé. Soprattutto, però, ci si domanda se l’incontro non sia un’utopia ancor più meritevole di questo nome di quanto non sia la poesia. Ma forse non si tratta che di due modi diversi per dire la stessa realtà. Un sigillo di verità è posto infatti sulle parole di Ossip Mandel’štam, il poeta con cui Celan più si identificò: «Nella distanza della separazione, i tratti di una persona a cui si vuole bene si sfumano. E allora cresce in noi il desiderio di dirle cose importanti che non abbiamo potuto dirle quando la sua figura era davanti ai nostri occhi, in tutta la sua concretezza».

Piero Stefani




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