Spagna, 1492: l'antisemitismo prima di Hitler

Assimilazione e antisemitismo: i modelli iberico e tedesco 
di Stefano Jesurum - Corriere della Sera

I nazionalismi c’entrano poco o nulla, i processi politici o l’affermazione di una visione secolarizzata e laicizzata della Storia pure. Ciò che conta veramente è "il sangue", la discriminante "fisica", quell’essere, e proprio quello, uomo e donna, vecchio e bambino. Non è dunque vero che antigiudaismo religioso (cristiano) e antisemitismo razzista siano momenti storico-ideologici disgiunti: insomma, è stata l’Europa moderna la grande incubatrice di Auschwitz. Di conseguenza, il pregiudizio razziale, l’incubo del "meticciato" — con cui ancora oggi ci troviamo spesso a fare i conti — sono il nucleo di un percorso che agisce nel profondo della (nostra) cultura. Ecco perché il monitoraggio continuo diventa obbligo, etico prima ancora che politico. E’ questa la dirompente lettura lasciataci da Yosef Hayim Yerushalmi (lo storico della Columbia University di New York scomparso l’anno scorso) nel suo Assimilazione e antisemitismo razziale: i modelli iberico e tedesco (traduzione di R. Volponi, introduzione di D. Bidussa, Giuntina, pp. 74, 8). Una lezione che dice come tra la Spagna della Grande Espulsione (1492) e la Germania di Hitler o l’Italia di Mussolini esista una comunanza tragica, la pretesa purezza della stirpe. Lo sottolinea Bidussa: "La limpieza de sangre non è l’ultimo residuo premoderno di un’Europa altrimenti volta verso la modernità. E’ parte del processo di costruzione dell’Europa moderna, dell’idea di nazione che la caratterizza". Ne discende che se alla base della violenta unificazione religiosa attuata in Spagna e Portogallo da Isabella la Cattolica c’era una concezione dell’ebreo identificato non su basi religiose ma fisiche, quello è l’imprinting su cui, consciamente o no, ci muoviamo a tutt’oggi nei confronti delle minoranze. Lo spiega Yerushalmi: "Nel Medioevo l’intera Europa cristiana aveva percepito il suo problema ebraico essenzialmente in una stessa ottica: quella della conversione. Gli ebrei erano un gruppo a sé perché rifiutavano ostinatamente di accettare la verità cristiana dominante. Se si fossero convertiti, sarebbero scomparsi come entità distinta e il problema, per definizione, avrebbe cessato di esistere. Di tutti i Paesi, la Spagna era quello che era giunto più vicino a realizzare il sogno paneuropeo. Per ironia della sorte, solo a quel punto un numero crescente di spagnoli cominciò a capire, con una sensazione di forte trauma, che, ben lungi dall’aver risolto il problema, le conversioni di massa lo avevano solo acerbato. Fino a quando erano rimasti all’interno della loro antica religione si era anche potuto contenerli attraverso leggi restrittive, entro limiti ben definiti. Ora, all’improvviso, l’intero corpus della legislazione antiebraica non era più applicabile nei confronti dell’enorme gruppo di conversos. Tecnicamente e legalmente cristiani, essi potevano fare ciò che volevano, e per molti spagnoli ciò era intollerabile". Il "nemico" da "esterno" si era tramutato in "interno". Lezione importante per il dibattito sulle integrazioni possibili.




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