Una tromba nello uadi

Recensione a Una tromba nello uadi 
di Cristina Delogu - globalstories.it

“Scesi verso la parte bassa della città come se un vento rabbioso mi spingesse da dietro. Con attenzione percorsi il vicolo scosceso e scivoloso che conduceva al frastuono e al traffico di via dell’Indipendenza. Dietro di me c’era lo uadi, che era per lo più arabo, e davanti a me la strada, che era per lo più ebraica”.
Mi è sembrato naturale seguire Huda per le vie di Haifa, in quell’incerto confine fisico e psicologico in cui vivono lei e la sua famiglia. Una famiglia arabo-cristiana originaria dell’Egitto. Con una maggioranza di donne: Huda, sua sorella Mary, la loro madre affettuosa e vigile, e la sempre presente vicina araba Jamilla, islamica osservante. Unico uomo il nonno Elias, nonno-padre, suocero-marito, irresistibile coi suoi occhi verdi e il sorriso ironico.
E’ il 1982 e Israele è un paese minato dalle divisioni, divisioni tra arabi giovani e arabi vecchi, tra arabi che vivono in città e arabi che vivono nei villaggi, tra ebrei che stanno lì da generazioni e ebrei che sono appena arrivati dall’Europa, tra ebrei ricchi e ebrei poveri. E su tutti l’incubo della guerra, una guerra che solo pochi sembrano volere ma che tutti subiscono.
Ed è proprio in mezzo a queste divisioni e a questa guerra che Huda e Mary sono cresciute, nascondendo in pubblico la loro identità, diventando di giorno in giorno più israeliane delle ebree. E Mary, che Huda definisce il prodotto più israeliano della famiglia, è costretta a fare una scelta di vita tradizionale che alla fine non sembra neanche dispiacerle. Anche perché “la libertà è un pesante fardello di cui non tutte le persone sanno caricarsi, e soprattutto non le donne, e in particolare non le donne arabe”, pensa Huda. E infatti se da un lato il mondo più arcaico, basato sull’onore e sulla famiglia, a cui Mary si è arresa, sembra un mondo soffocante e infelice, dall’altro il nuovo mondo dove Mary e Huda si trovano a vivere, dove l’amore è una specie di nuova religione, non è per nulla facile. Perché “in questa religione non ci sono sacerdoti né profeti, non c’è rivelazione divina, né ci sono libri sacri. Una persona deve scoprire da sola il suo Dio, capire i segnali, e trovare la strada senza chiare regole. Ci avventuriamo tutti a cercare questo amore, e quasi tutti ci perdiamo nella desolazione”.
Condivido completamente il pensiero di Huda, avendo provato quanto sia difficile la strada della libertà, e quanto ci si possa sentire smarrite, ma avendo anche provato la felicità di una conferma, di esserci riuscita qualche volta a prendere la decisione giusta. Per non parlare dell’amore.
Proprio nel momento in cui è più stanca di queste contraddizioni, proprio quando sta per arrendersi all’idea che “in una terra squarciata dagli odi e in una situazione di guerra continua, non è possibile coltivare un’oasi d’amore, non sul confine tra due popoli che hanno deciso di strangolarsi”, Huda si innamora, e non di un uomo qualsiasi ma di Alex uno strano vicino che sembra un nano e che suona la tromba dalla terrazza sulle loro teste, unico ebreo nello uadi. Alex non era venuto in Israele perché era un sionista, aveva organizzato tutto sua madre: ”che ebreo sono io? Non conosco neppure le feste. Mi confondo anche tra Purim e Kippurim. Quando i miei genitori parlavano yiddish in Russia non capivo niente. E poi io non volevo venire in Israele, non volevo proprio”. Ma è ebreo Alex e come tale dovrà partecipare alla guerra, e gli sembrerà naturale.
“Una tromba nello uadi” è una lente di ingrandimento su un paese che sempre più mi sembra un laboratorio sperimentale dell’Occidente e del mondo globalizzato. E, come quando si osservano dei fenomeni in laboratorio, anche in questo caso possiamo scoprire fenomeni nuovi, magari contraddittori.



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