Festivaletteratura, Mantova

8-12 settembre 2010

Incontro con Lizzie Doron

di Mara Marantonio

Dal 1997 “Festivaletteratura” a Mantova è un appuntamento fisso in questo ambrato scorcio di fine estate: cinque giorni davvero pieni, ricchi di incontri con scrittori, di manifestazioni diverse, concerti, letture. Un’iniziativa nata dalla sensibilità e lungimiranza di un gruppo di persone di cultura ed operatori economici e finanziari, che riscuote un crescente successo ad ogni edizione, poiché in grado di richiamare non solo gli appassionati di letteratura, ma anche coloro che, curiosi del bello, amano assistere a spettacoli e incontrare Autori di tutto il mondo -celebrati o agli esordi- passeggiando per le vie di una città il cui centro storico è pressoché interamente pedonalizzato.
Qui la fanno da padrone le ecologiche biciclette, anziché le automobili e gl’incivili motocicli, con dimostrato beneficio vuoi per la salute degli abitanti e dei monumenti, vuoi anche, ciò in controtendenza con l’opinione espressa -altrove- dai paladini di un preteso, pur non ben chiaro nel significato, “diritto alla mobilità”, per le casse dei locali commercianti, occupati nel far conoscere al folto pubblico i loro prodotti, praticando, in questa giornate, congrui sconti a vantaggio di tutti. Un’atmosfera di festa, insomma, cui contribuiscono in primo luogo i numerosi volontari dell’Associazione Filofestival (molti dei quali giovanissimi), riconoscibili dalle magliette color azzurro carico portanti il logo ironico “Gatta ci cova”. Ma io so che non sarà un inganno l’appuntamento per il quale mi sono concessa ventiquattrore di libertà: Lizzie Doron, nel pomeriggio di Giovedì 9 settembre, presso il cinema/teatro Ariston.
Poco dopo la nostra entrata in sala ecco Lizzie. E’ più alta rispetto a come la ricordavo in occasione del nostro ultimo incontro a Firenze nell’ottobre 2009, spigliata e sorridente, assai elegante nel completo pantalone nero, ravvivato da una lunga sciarpa a grandi quadri bianchi e grigio scuri. L’accompagna il marito, un bel signore alto come lei, con folti capelli argentei: si siede in prima fila a godersi il successo della consorte. Saluto Lizzie, che si ricorda di me e della nostra ultima chiacchierata fiorentina. Ecco Marina Astrologo, la valente interprete dall’inglese; impegnatissima tra una conversazione e l’altra, tra un teatro moderno e il cortile di un palazzo rinascimentale, ma con l’aria distesa e divertita di chi si trova ad una scampagnata tra amici.
Un paio di ragazze si avvicinano alla scrittrice per la dedica sui libri che le porgono: caratteri latini o ebraici? Domanda lei cordiale. Arriva Lella Costa, la brava attrice e regista teatrale, che condurrà l’incontro. Prego la foto. Scatti, abbracci, risate e battute in inglese.
Silenzio in sala.
Lella parte dalla pagina introduttiva di “C’era una volta una famiglia”, la seconda opera di Doron, pubblicata in Italia, nel 2009, da Giuntina, come del resto le altre: “All’inizio degli anni cinquanta, nello Stato di Israele nacque un nuovo paese, il paese di qua. In questo paese vive un popolo estraneo che viene dalla terra di là….E quella terra, che con i suoi morti giace moribonda….risuscitò: per sette giorni tornò di nuovo in vita un paese sconosciuto, un paese che mi è stato patria e famiglia…”. La lettura è intensissima, di rado ho udito un’interpretazione così forte. E pensare che Lella si definisce, modestamente, soubrette, forse perché conduce anche spettacoli di cabaret. Mamma mia, è in grado di dar lezioni a tanti/e zeppi di alterigia (pseudo) intellettuale. Lizzie, grazie alla traduzione simultanea di Marina, ne è colpita; anzi sembra, all’inizio, che quasi non si riconosca in quelle parole. E’comprensibile: quando scrivi, entri in una sorta di trance, in uno stato di magia dal quale difficilmente ti distacchi; ma, una volta tornata tra…i comuni mortali, fatichi poi a ritrovare in te la traccia di quel cammino che ti aveva condotta all’incantesimo.
Ma si tratta solo di un attimo. Quella famiglia amata, idealizzata, negata, quel dolore che è una pena infinita, è il mio dolore di bambina, confessa l’Autrice. Da adulta ho compreso, e comprendo, gli incubi dei miei genitori, e in primo luogo di Helena, mia madre, i silenzi su quanto era accaduto, sulla Shoah, ma dentro di me sono pure, ancora oggi, la piccola alla ricerca di una vita migliore, colei alla quale una vera famiglia è mancata.
Lizzie è profondamente commossa, alterna al sorriso malcelate lacrime.
“Avrei voluto sotterrare quei ricordi che lasciava intravvedere mia madre con le sue frasi emblematiche (al mondo ci sono persone buone, persone cattive e…persone che sono state ad Auschwitz, talora ripeteva). Io sono cresciuta in un ambiente nel quale ciascuno è una storia, una storia non raccontata dall’interessato, ma da un’altra persona. E le vicende di quest’ultima sono magari narrate da altri” accenna con riferimento, sia in generale alle tematiche delle sue opere, sia, in specie, all’ultima “fatica”, uscita nel nostro Paese alcuni mesi fa, “Giornate tranquille”, altro emozionante gioiello letterario.
“Da bambina” prosegue “non ho mai letto libri sulla Shoah, né visto film. Mi ero fabbricata una mia autobiografia: i miei genitori, raccontavo, sono nati in Israele. Poi, da adulta, con la mia vita da tempo impostata, è arrivato il progetto Radici…” e riferisce della nascita casuale di se stessa come scrittrice, proprio a seguito, com’è noto, di tale progetto, consistente nell’affidare ad ogni studente israeliano degli istituti superiori una ricerca sulle origini della propria famiglia.
La figlia Dana, a questo proposito, chiese aiuto a mamma Lizzie, docente universitaria…Il seguito della vicenda è, con il fulminante “Perché non sei venuta prima della guerra?” (pubblicato in Israele nel 1998 e in Italia nel 2008), “Storia della letteratura d’Israele”. Anche se la Nostra non ama presentarsi come scrittrice, ma quale semplice…fotografa della realtà. E aggiunge ironica: “Quest’ultima affermazione non piace al mio editore, è ovvio. Se vado a Parigi o a Berlino, metropoli importanti, allora sì, parlo di me come scrittrice” e assume una posa comica, come qualcuno che sta in cattedra. “Ma qui a Mantova, in questa stupenda piccola città, mi sento a mio agio, come in famiglia, e mi viene più facile condividere con Voi, senza alcuna pretesa, queste mie storie intime”.
Una grande dimostrazione di affetto. “With love”, ama scrivere sui libri, quale dedica ai lettori. Non è un’espressione di circostanza.
A mia volta mi emoziono; capita sempre così quando la leggo o la sento raccontare di Helena, lettrice di Heine, persona colta, figura eroica e bizzarra con un mondo interiore complesso più di un sistema solare, prigioniera per sempre dei suoi incubi (defunta nel 1990, per “una seconda volta”), questa “morta veterana”, come amava definirsi, che tuttavia ha cresciuto -da sola, il marito era scomparso presto per una grave malattia- con grande amore la figlia, cercando di insegnarle la passione per la vita. Passione espressa in quel modo tutto suo - all’apparenza paradossale, in realtà carico di razionale buonsenso - di concepire l’esistenza e i rapporti col prossimo, compresi la contrarietà a far partecipare la sua ragazzina alla celebrazione di Yom Hashoah -“…non ha un nonno o una nonna..e allora ogni sabato e…anche ogni giorno normale lei ha un giorno della memoria. E allora perché non lasciarle almeno un giorno all’anno di riposo?”-. O l’avversione radicale nei confronti della retorica guerresca: “….dalla mia esperienza so che le persone che pensano che è bene morire generalmente sono malate” sostiene in una lettera al preside della scuola frequentata dalla figlia, a proposito di una celebre frase attribuita a Yosef Trumpeldor “….Alla mia bambina…devo insegnare ad amare la vita…Nel caso, non sia mai, dovesse combattere, dovrà combattere per vivere e non per morire, come Lei e Trumpeldor pensate”.
“Non lascerò che mio figlio muoia” è il motivo conduttore di “C’era una volta una famiglia” e chiave di lettura per comprendere, al di là delle numerose differenze, il comune sentire del popolo di Israele nei confronti della Guerra, della Famiglia, della Vita e della Morte.
Perché, certo, se i nostri figli, che con fatica abbiamo messo al mondo ed educato alla vita, “qua”, ritiene Helena, muoiono, ecco che finiremo per perdere anche la partita nel Paese “di là”. E saremmo due volte morti. Un rapporto d’amore, quello con Helena, forte, ma molto difficile e, quando la madre era viva, era ancora più conflittuale, confessa.
Con grande levità Lizzie ci parla dei suoi figli, spiriti inquieti: Dana, laureata in medicina, ma ancora alla ricerca della propria strada, e Ariel, che ha deciso di essere…burattinaio, un burattinaio i cui spettacoli trattano il tema della Shoah. Una bella famiglia.
Ella ci confessa che, con le sue frasi elaborate (ma tanto evocative e profonde) cerca di interpretare le brevi frasi della madre; il tentativo è ben lungi dall’essere finito ed è per questo che ella scrive!
E’ felice di stare con il suo pubblico: “Vorrei portarvi con me” conclude e, nell’abbracciare Lella e Marina, abbraccia pure noi tutti.



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