Trasmettere il senso del sacro

Giulio Meotti recensisce Il Libro di Tamar
su Il Foglio

 

La storia è antica. È narrata nel capitolo 38 della Genesi. Ecco l’antefatto: “In quel tempo Giuda si allontanò dai suoi fratelli, andando a stare nei pressi di un adullamita, di nome Chirà. Là Giuda vide la figlia di un cananeo, che si chiamava Shua e la prese in moglie, unendosi a lei. Essa concepì e partorì un figlio, che egli chiamò Er. Di nuovo incinta, partorì ancora un altro figlio, che chiamò Onàn; partorì ancora un altro figlio, che chiamò Shelà. Fu a Kezìv che lei lo partorì. E Giuda prese per Er, il suo primogenito, una moglie il cui nome era Tamar”. Da qui nasce e prosegue questa opera prima ora pubblicata in Italia dall’israeliana Shlomit  Abramson. L’Autrice riesce a dare corpo a una vicenda arrivata fino a noi col linguaggio della mitologia sacra attraverso la lente della modernità. E riesce, attraverso questo azzardo, a far riflettere sui difetti della modernità attraverso l’eco della tradizione. Tamar è una bambina di dodici anni, non ancora sviluppata, che viene strappata, del tutto inconsapevole, dalla tenda delle donne della sua tribù e dalla tenerezza che la lega soprattutto alla nonna Tabita, per essere data in sposa a uno sconosciuto, diventando così proprietà sua e della sua gente in una terra lontana. Sradicata, chiamata ad adattarsi all’improvviso a uno stile di vita, a paesaggi e a caratteri tanto più aspri di quelli in cui era fino ad allora cresciuta, quella di Tamar diventa una vera e propria iniziazione, un’educazione sentimentale in cui si realizza – grazie soprattutto all’influenza della nonna – una femminilità compiuta, non sottomessa ma intelligente e attiva. Qualità che la renderanno abbastanza arguta dal sottrarsi a un tragico destino, rovesciandolo non solo in suo favore, ma a ben vedere a favore dell’intera umanità se, come si tramanda, dalla sua prole discende il Messia attraverso Perez. Come vuole la Genesi, a causa della morte di Er per assicurargli una discendenza, Tamar è destinata prima a suo fratello Onàn, poi (per eventi diversamente interpretati nel romanzo della Abramson) al terzo fratello più piccolo. In attesa che questi raggiunga l’età per prenderla in moglie, Tamar viene rimandata alla casa di suo padre. Anche qui il romanzo si discosta dalla tradizione biblica, ma il tratto che resta in comune è lo stratagemma che la giovane – ormai donna che ha fatto esperienza dell’amore – mette in atto per sfuggire a una terribile condanna pronunciata dal suocero Giuda quando viene a sapere che la nuora è incinta. Tanti i personaggi descritti che partecipano alla vicenda. Tra tutti spicca Bilhà, l’unica ad accogliere benevolmente la piccola Tamar nella nuova tribù. Pieni di fascino e avvincenti le descrizioni del medioriente antico e della vita nomade e pastorale, che l’autrice ricostruisce con perizia: i riti domestici (“di certo [sua madre] sarebbe stata fiera di lei – di come aveva imparato a ricamare, filare, a rattoppare le vesti e i teli delle tende sfilacciati. E di come aveva imparato a mungere le pecore, e a separare il burro dal latte, a macinare il grano e a cuocere il pane croccante”), la magia delle narrazioni proferite dopo il pasto serale intorno al fuoco, la furia e la dolcezza della natura, i rapporti personali scanditi dai doveri, dalle usanze, dalle gelosie tra mogli che come una malattia infettiva si trasmettono ai figli. E al di sopra di questa umanità semplice e complicata, la benevolenza o l’ira di Ishtar , dea babilonese dell’amore e della guerra che “copre il cielo col suo manto nero trapuntato di stelle”. Un azzardo riuscito quello di Shlomit Abramson che con questo romanzo, impastato di Bibbia, ebraismo, idolatria e femminismo ante litteram, cattura il lettore trasmettendo il senso del sacro.  




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