ASSAGGIO: La preghiera (Dalla raccolta di racconti di Margarita Khemlin "La terza guerra mondiale".

Tutti sicuramente ricordano che in Irak, quando si dava la caccia a Saddam Hussein, un contadino di quel paese, per aver abbattuto con la sua carabina un elicottero americano, ebbe da Saddam un mucchio di soldi oltre a un gregge di montoni. La cosa fece molto rumore. Ma che c’era di straordinario? In fondo si era servito di un proiettile, di un’arma. Aveva preso la mira, aveva colpito, ed eccolo diventato un eroe.
Ma questa è una storia diversa. A Mosca, nel vicolo Svedskij, viveva un uomo. Aveva una moglie, tre figli e una figlia. Sul passaporto risultava ebreo – Samuil Jakovleviã Vihnoviã – però nessuno ci faceva caso, tanto più che la moglie era russa. Vihnoviã lavorava in una fabbrica di confezioni.
Poi improvvisamente arrivò la guerra. La moglie e una figlia abbandonarono la città, i figli andarono al fronte. Ma Samuil Jakovleviã rimase, in primo luogo perché dirigeva la fabbrica – era un posto di responsabilità – e lui era iscritto al partito. In secondo luogo disapprovava la scelta della moglie di lasciare la città. «Noi due abbiamo passato tutta la vita in quel vicolo. E ora ve ne andate senza motivo perché Mosca noi non la cederemo. I nostri figli sono al fronte, da volontari, e voi dimostrate sfiducia nei loro confronti». Vihnoviã rimase in azienda. Ma poiché si trovava in un grande appartamento in coabitazione, non era solo. Erano rimaste anche due vecchiette e una donna senza marito con il figlioletto di dieci anni, Jura. E così Samuil Jakovleviã si ritrovò, per così dire, sotto sorveglianza.
Facevano tavola comune, ma a turno nella propria stanza. Nelle stanze e non in cucina perché Samuil aveva insistito che si facesse come prima della guerra. Le vecchiette cuocevano le patate, qualche minestrina. Sistemavano i viveri, rattoppavano, rammendavano, strofinavano anche. E così, di tutto l’appartamento solo i figli di Samuil Jakovleviã erano al fronte. Tutti gli occupanti dell’appartamento attendevano ansiosamente, da una loro lettera, le notizie dalla prima linea. Le lettere dei figli, Samuil le leggeva prima da solo, per sé, poi sempre per sé ma a voce alta, per tutti. Poi le leggeva Jura, quando Samuil era andato al lavoro ed erano rimaste solo le vecchiette.
Più di frequente arrivavano le lettere della moglie e della figlia, ma queste Samuil non le mostrava a nessuno perché non erano di interesse pubblico. Bisognava fare la sorveglianza sul tetto (accendere o buttare giù gli spezzoni incendiari). Quando arrivava il turno del loro appartamento, Samuil andava sempre lui sul tetto, non permetteva che ci salisse la mamma di Jura, tanto meno le vecchiette. Loro non uscivano quasi mai, solo a turno si offrivano di andare a comprare il pane, ne avevano fatto pratica già in epoca imperialista. Ed ecco, una volta che toccava il turno di sorveglianza (era estate, la notte tra il 7 e l’8 giugno 1942), Samuil Jakovleviã sale sul tetto, guarda il cielo. Tutto sereno. Brillano le stelle. Se si guarda in basso e in lontananza si abbraccia con lo sguardo l’intera Mosca (la casa ha sei piani, bella solida, costruita nel 1879). È vero, è buio, c’è l’oscuramento, ma qualcosa si può distinguere.
Passano due ore di sorveglianza. Nulla. E ora il rombo di un aereo. Proprio sulla testa di Samuil. Non si capisce come l’aereo sia riuscito ad avvicinarsi così all’improvviso. Ma romba proprio sulla testa, addirittura sembra che scenda in picchiata. Samuil ha in mano una grossa paletta da sabbia, accanto una cesta di sabbia, un secchio pieno d’acqua e poco lontano un attizzatoio. Lui ha preparato e predisposto tutto per gli spezzoni incendiari, ma ora si tratta di un aereo.
Bisogna dire che spesso di notte, senza permesso, Jura correva sul tetto, per curiosare, per aiutare. Samuil Jakovleviã lo mandava via, ma il tetto era grande, non riusciva a inseguirlo. Proprio nel momento in cui l’aereo stava facendo il gradasso sopra Samuil Jakovleviã, Jura spuntò accanto a lui e mostrò la lingua all’asso nemico. Non si sa per quanto tempo l’aereo volteggiasse sulle loro teste. Girò per un po’, poi si allontanò. Solo allora Samuil tornò in sé. Scagliata da una parte con forza e fracasso la paletta, sollevò in alto le mani, strinse i pugni e mormorò: «Dio di Isacco, di Abramo e di Israele! Puniscilo! Puniscilo!». E in quel momento, a ciel sereno, come si dice, balenò un fulmine, rimbombò un tuono, divampò un fuoco. Jura si aggrappa alla giacchetta di Samuil – che paura! Ma Samuil grida, agita i pugni in direzione dell’aereo che si allontana: «Ti maledico! Ti maledico!», e frasi del genere. E l’aereo, ancora visibile in lontananza, prese fuoco e precipitò. Quindi, una scia nera… e via…
Jura strilla, Samuil sta lì impalato e indica con la mano in direzione dell’aereo scomparso. «Guarda, ragazzo, abbiamo vinto!».
Il mattino seguente la mamma di Jura venne da Samuil a chiedere un bottone da attaccare ai pantaloni del figlio perché li perdeva continuamente. In quel periodo fra i ragazzi c’era la moda di fare commercio di bottoni con i rigattieri. Oppure – ancora peggio – a Tisnik tagliavano i bottoni ai vagabondi e li vendevano a Palas e viceversa. Col ricavato compravano tabacco, il guadagno se ne andava in fumo. Già più volte Samuil aveva staccato dei bottoni dagli abiti dei figli per regalarli a Jura, sempre avvertendolo che era l’ultima volta e che sapeva perfettamente cosa accadeva a Tisnik e Palas.
Samuil acconsentì a quest’ultima richiesta di bottoni, ma chiese che si presentasse di persona Jura. Il ragazzo arrivò e cominciò a piagnucolare che i bottoni si perdevano perché la mamma, per risparmiare filo, li cuciva poco saldi. Senza ascoltarlo Samuil gli si rivolse: «Jurij, io e te dobbiamo fare un discorso serio. Hai raccontato a qualcuno quello che è successo stanotte sul tetto?».
Il ragazzo si rianimò tutto: «Che i nostri hanno abbattuto l’aereo?». Samuil confermò in fretta.
«Sì, che i nostri…».
«E allora? L’ha visto tutta la città, di sicuro. Bene, no? Ma ora datemi due bottoni, di riserva. Per favore».
Samuil glieli dette.
Poi rimase seduto su una sedia, a meditare. A conti fatti risultava che l’aereo l’aveva abbattuto lui. Non da sé, certo… L’aveva abbattuto il Dio degli ebrei rispondendo alla preghiera di Samuil Jakovlevič. Più che una preghiera un’ingiunzione. Questo era il fatto. Per di più questo era un fatto che richiedeva l’immediata iscrizione, in un modo o in un altro, nelle tavole della Legge. Samuil decise di recarsi in sinagoga. L’ultima volta c’era stato nel 1900, nella cittadina di âernobil’, in Ucraina. Era passato di là per accomiatarsi dal padre. E da allora mai più.
Nella sinagoga più vicina già da molti anni operava la Casa della creatività popolare. Samuil decise allora di recarsi alla sinagoga corale nella Soljanka. Aveva sentito dire che era ancora regolarmente in funzione. Da persona organizzata pianificò tutto: alle 7 corse in azienda per dare disposizioni, organizzare un riunione, telefonare al comitato rionale a proposito di nuove istruzioni; così alle 12 poté assentarsi per un’oretta.
In sinagoga lo accolsero bene. Tre vecchini con kippòt nere e barba, incaricati di ricevere i visitatori, gli chiesero di coprirsi in qualche modo il capo. Gli suggerirono di usare il fazzoletto, se non aveva altro. Questo dopo avergli chiesto se era ebreo, se era circonciso e come si chiamavano i suoi genitori.
Samuil mostrò il passaporto, tirò fuori la tessera del partito. Osservarono tutti i documenti. Si sedettero. La stanza era piuttosto piccola, simile a un ufficetto. Un telefono nero, solido, un grande tavolo. Samuil Jakovleviã raccontò. Iniziarono le precisazioni.
«Che preghiera ha recitato?».
«Beh, ho detto soltanto: “Dio di Abramo, di Isacco, di Israele”».
«In che lingua?».
«In russo, sennò quale…».
«Ma questa… questa preghiera non è consentita in russo. Non esiste una simile preghiera. Esiste la preghiera: “Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe…”. È sicuro che non era questa?».
«Sicuro».
«Allora, lei ritiene di aver abbattuto l’aereo?».
«Certo… Cioè, non propriamente. Io mi sono rivolto a Dio».
«E mangia kashèr?». E via dicendo
Samuil sta lì seduto, risponde come uno scolaretto, balbetta. Inoltre il fazzoletto gli sta scivolando dalla testa. I vecchini scuotono il capo, sorridono. Scambiano qualche parola in yiddish perché l’ospite non capisca che opinione hanno.
Samuil perse la pazienza.
«Questo significa che non mi credete. Eppure ho un testimone».
I vecchini si fecero attenti.
«Che testimone? Un ebreo?».
«No. Russo. Un ragazzo, Jurij».
«Lo vede? Non ha testimoni».
Samuil andò su tutte le furie, addirittura cominciò a gridare, insomma non siete dei sovietici, non mi credete, avete una mentalità gretta, eppure c’è la guerra e io ho tre figli al fronte.
I vecchini cominciarono a dimenare le mani, cercarono di calmarlo. Su, Samuil Jakovlevič, vada a casa, è un brutto periodo, tutti patiscono, tutti lavorano a più non posso. Succedono ogni sorta di cose e i nervi rischiano di saltare.
Al momento di congedarsi Samuil disse: «Eppure io sono ebreo. Ho supplicato il Dio degli ebrei, Gli ho chiesto aiuto. E Lui mi ha risposto. Lui ha risposto a me, personalmente. Questo è un fatto, un fatto. Capite? E voi: e in che lingua e con quale preghiera… Ho chiesto aiuto così come mi ricordavo. Ora dove devo andare? In chiesa? Al comitato rionale? Alla milizia?».
I vecchini ripresero a zittirlo, a levare lamenti. No, per carità, né al comitato rionale, né alla milizia. Loro stessi avrebbero riunito delle persone intelligenti, si sarebbero consultati e l’avrebbero convocato.
Samuil lasciò l’indirizzo. Spiegazzò il fazzoletto e con quello stretto in pugno fece a piedi la strada fino all’azienda, a Presne. Non prese nemmeno il tram. Tornò a casa la sera tardi. Non accese la luce, c’era l’oscuramento. Si sdraiò sul divano senza spogliarsi. Rimase così fino al mattino, senza chiudere occhio. Poi si addormentò. Si svegliò dopo un’ora. Come rinato. Si avvicinò al tavolo dove c’era la Pravda del giorno prima, non ancora letta. Lesse il titolo dell’articolo di fondo: «Le retrovie sovietiche sono un vigoroso sostegno per il fronte».
Per qualche motivo si rallegrò ancora di più e si affrettò ad andare al lavoro, perché nell’austero tempo di guerra non si doveva assolutamente arrivare tardi.
Ora due parole su questo straordinario posto dove tutto era accaduto. Lì non c’è alcuna lapide. Nel 1976 nel vicolo Svedskij furono abbattute alcune case, fra cui quella di sei piani. Fu eretto il nuovo edificio del Teatro d’Arte di Mosca. E, a proposito, in quel luogo gli affari del teatro non andarono molto bene.




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