Archivio mercoledì 1 febbraio 2017

Talmud: istruzioni per l'uso/4 (Tra una trasgressione e una catastrofe)

Intervento di Stefano Levi Della Torre al Festivaletterature di Mantova

Il Talmud nasce da una catastrofe e da una trasgressione. Da una catastrofe, cioè dalla doppia sconfitta subita ad opera dell’impero romano: nel 70 dC, sotto Tito , con la caduta di Gerusalemme e con essa del regno giudaico; con la distruzione del Secondo Tempio, e con esso della funzione sacerdotale; nel 135 dC, sotto Adriano, con la sconfitta della rivolta di Bar Kochba. Ora appunto, Mishnà e Talmud cercano di ricostruire normative, tradizioni e senso che suppliscano a quelle perdite radicali. Riferiscono delle discussioni dei maestri e delle loro decisioni in proposito. Ma il Talmud nasce anche da una trasgressione. Era sancita la distinzione tra la Torà scritta (la Bibbia) e la Torà orale (l’insegnamento trasmesso da maestro ad allievo), ed era stato fatto divieto a che questa venisse fissata in scrittura, per mantenerne la vitale variabilità di generazione in  generazione. Il Talmud trasgredisce questo divieto: esso consiste infatti nella messa per iscritto della tradizione orale. Ma nella sconfitta e nella dispersione, questa trasgressione era necessaria, perché necessario era un riferimento non volatile, e perciò scritto, atto a ricostruire come popolo gli ebrei dispersi ed esposti all’influenza di altre culture.
Ma quasi a rimediare a questa trasgressione, il Talmud riflette l’oralità nella sua particolare forma letteraria, che è quella del dialogo, della controversia, del frammento, del passaggio da un argomento all’altro, delle conclusioni assenti o differite. A differenza dei dialoghi platonici, non c’è una figura dominante che al pari di Socrate ponga la domanda e conduca alla risposta lungo il filo della logica e del convincimento.  Il carattere della tradizione orale emerge inoltre dal rilievo dato alla trasmissione da maestro ad allievo, o da predecessore a successore, quale si riflette anche nel principio deontologico secondo cui chi non cita le sue fonti non entrerà nel ‘mondo a venire’. Infine, il Talmud mantiene dell’oralità una forma reticente, una specie di intimità tra addetti ai lavori che sanno intendersi anche per allusioni: difficoltà che è anche un seyag, una “siepe intorno alla Torà” che la protegga da sguardi estranei e deformanti, e però pone problemi a una traduzione che voglia ora proporre il testo a un pubblico vasto e generico. Per questo la recente encomiabile traduzione del trattato Rosh haShanà Giuntina 2016) non può che porsi essa stessa come interpretazione, dovendo rendere esplicito (e graficamente segnalato) ciò che è supposto implicito nella reticenza frammentaria dell’originale.




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