Alessandra Farkas racconta su Sette il romanzo di Leviant
L'uomo che pensava di essere il Messia
All’uscita in America, nel 1990, il Premio Nobel Elie Wiesel lo osannò come “toccante e meraviglioso”. “Un libro “incantevole, magico e sensuale”, gli fece eco la New York Times Book Review mentre Publishers Weekly e Los Angeles Heritage lo definirono, rispettivamente, “ipnotico e brillante” e “un capolavoro degno di Kafka e Bellow”. Il libro è L’uomo che pensava di essere il Messia dello scrittore americano Curt Leviant, uno dei massimi esponenti della letteratura ebraica contemporanea (‘La ragazza Yemenita’ e ‘Diario di un’adultera’) nonché illustre traduttore di classici in lingua Yiddish.
Tutti sicuramente ricordano che in Irak, quando si dava la caccia a Saddam Hussein, un contadino di quel paese, per aver abbattuto con la sua carabina un elicottero americano, ebbe da Saddam un mucchio di soldi oltre a un gregge di montoni. La cosa fece molto rumore. Ma che c’era di straordinario? In fondo si era servito di un proiettile, di un’arma. Aveva preso la mira, aveva colpito, ed eccolo diventato un eroe.
Ma questa è una storia diversa. A Mosca, nel vicolo Svedskij, viveva un uomo. Aveva una moglie, tre figli e una figlia. Sul passaporto risultava ebreo – Samuil Jakovleviã Vihnoviã – però nessuno ci faceva caso, tanto più che la moglie era russa. Vihnoviã lavorava in una fabbrica di confezioni.
Lara Crinò recensisce Il libro di Tamàr
di Shlomit Abramson su D di Repubblica
Una ragazzina attraversa le terre riarse dell’antica Israele sulla groppa di un cammello per raggiungere il suo sposo. Si chiama Tamar e ogni notte, nella tenda delle donne della nuova tribù, attende che il ragazzo con cui l’hanno sposata si stenda accanto a lei, ma invano. Quando la dea Ishtar copre il cielo col suo manto nero trapuntato di stelle, il primogenito di Giuda, Er, fugge i suoi fianchi stretti.
Bruno Quaranta recensisce su La Stampa
La balma delle streghe di Stella Bolaffi Benuzzi
Esce il diario della figlia di Giulio (il comandante Laghi) “In Val di Lanzo, tra streghe e giochi, aspettavo la libertà”. E così, la memorialistica subalpina, accanto a Natalia Ginzburg, Virginia Galante Garrone, Lalla Romano, si arricchisce di un’ulteriore orma femminile: Stella Bolaffi Benuzzi, una signora ruotante intorno a un intimo filo di ferro, nonché ramo orgoglioso di un albero genealogico costellato di francobolli, di rarità in rarità risalendo al 1890, quando nonno Alberto fondò la pregiata ditta torinese, cedendo il testimone nel 1944 al figlio Giulio, il comandante Laghi, alla guida in Val Susa della divisione di Giustizia e Libertà «Stellina», come la figlia.
Elena Loewenthal recensisce Idromania
di Assaf Gavron su La Stampa
Siamo nel 2067 – in fondo, a un passo di tempo da qui. Il mondo è prevedibilmente ipertecnologico e ovunque teleguidato. La gente porta un microchip sottopelle che consente transazioni finanziarie, contatti sociali, gestione domestica con la sola guida del pensiero. Il mondo si guarda attraverso un neanche troppo futuristico paio di occhiali che si portano addosso per accorciare distanze – o allungarle, tutto dipende dalle esigenze. In barba agli assetti geopolitici che possiamo immaginare di qui, cinquanta e rotti anni prima (un sospiro dell’universo), le grandi potenze in gioco, praticamente esclusive padrone del mondo, sono Giappone, Cina (ma fin qui più o meno ci siamo) e Ucraina. Il resto del mondo è puro suddito.